Quando ho letto che “I minatori intrappolati nella miniera cilena forse saranno a casa prima di Natale” ho pensato che fosse una battuta. Poi mi sono informato meglio, e ho saputo che era invece la semplice verità.
Ci sono 33 minatori, intrappolati dal 5 agosto a 600 metri di profondità nella miniera di San Esteban, nel nord del Cile, che attenderanno almeno tre mesi prima di essere riportati in superficie.
Per diversi giorni, dopo che è avvenuto il crollo della galleria principale della miniera, non si è saputo nulla dei 33 minatori intrappolati al suo interno. Un primo tentativo di utilizzare un canale di aerazione per raggiungerli è fallito, quando anche questo canale è crollato su se stesso. Si sapeva che esiste nella miniera una specie di rifugio d’emergenza, situato poco più in basso del livello del crollo, che contiene provviste di cibo e acqua per un paio di giorni, ma nessuno sapeva se i minatori intrappolati fossero riusciti a raggiungerlo in tempo. Inoltre, i giorni passavano, e si cominciava a temere che, anche se lo avessero raggiunto, a quel punto sarebbero comunque rimasti senza cibo e senza acqua.
Quando ormai le speranze di trovarli vivi si erano ridotte al minimo, è giunto un segnale attraverso una sonda che era stata indirizzata con successo nelle vicinanze del rifugio: i 33 minatori erano ancora tutti vivi, e stavano bene. Il foro della sonda è stato subito allargato, … … in modo da fargli giungere acqua, cibo e medicinali di prima necessità. In seguito sono state calate micro-telecamere e microfoni, finchè è stata stabilita una normale via di comunicazione. I minatori hanno così raccontato di essere riusciti a raggiungere il rifugio dopo il crollo, e di essere sopravvissuti bevendo l’acqua dei radiatori delle ruspe. Ora dovranno aspettare che il foro venga progressivamente allargato, fino alle dimensioni delle spalle di un uomo, per potervi calare un cestello che li riporti in superficie, uno per uno.
Sembra inconcepibile, ma pare che per allargare questo foro fino alle dimensioni necessarie, senza correre il rischio di provocare un nuovo crollo, ci vorranno almeno tre mesi. Questi 33 uomini hanno quindi cominciato ad organizzare la loro vita, rinchiusi in uno spazio di circa 60 metri quadrati, per riuscire ad arrivare al momento della liberazione senza impazzire.
La situazione naturalmente ha scatenato una nuova ondata di emozioni collettive, in un paese che ha appena vissuto la pesante tragedia del terremoto. Naturalmente i politici hanno cavalcato la tigre, facendo a turno davanti ai microfoni che collegano i minatori con la superficie per lanciare slogan impregnati di nazionalismo, del tipo “il cuore di tutti i cileni in questo momento batte con voi”.
Tale è stato l’effetto, fra i minatori intrappolati, che durante una visita del presidente Piñera questi si sono messi addirittura a cantare l’inno nazionale.
Potere della demagogia.
Nel frattempo nessuno riflette sulla realtà che ha portato quei minatori ad un soffio dalla morte, dopo averne sepolti a centinaia nel passato: ci sono mediamente 34 morti ogni anno nelle miniere cilene.
Da oltre un secolo il Cile è il primo esportatore mondiale di rame, un metallo che ha visto aumentare progressivamente il suo valore con l’arrivo e con la diffusione in tutto il mondo dell’elettricità.
Naturalmente, gli americani furono rapidi ad investire nelle miniere cilene, e nel periodo anteguerra arrivarono a controllare tutti i maggiori giacimenti del territorio. Intorno ad ogni miniera avevano creato una specie di “città-stato”, con scuole, abitazioni e servizi sanitari per i minatori, che così potevano vivere e lavorare sul posto.
Dopo la guerra naquero i primi sentimenti nazionalisti, e dal 1955 al 1969 ebbe luogo la prima fase della cosiddetta “cileizzazione del rame”, che consisteva nella progressiva acquisizione da parte del governo cileno delle quote di proprietà delle miniere. Ma molti erano insoddisfatti, e la promessa di una rapida e completa nazionalizzazione fu uno degli elementi che portò Salvador Allende alla sua vittoria elettorale, nel 1970.
Una volta diventato presidente, Allende tenne fede alle sue promesse: non solo nazionalizzò tutte le miniere, togliendole alle multinazionali americane, ma decise che il Cile non gli avrebbe rimborsato un solo dollaro, perchè in passato gli americani “avevano guadagnato più del valore ufficiale delle miniere”.
Questo naturalmente non rese felice Nixon, che già aveva mal digerito la vittoria elettorale del nuovo presidente "socialista", e ora cominciava a temere un effetto-domino in tutto il Sudamerica. (In quel periodo, l'unico vero alleato degli USA in Sudamerica era il Brasile).
“Se continua così – disse Nixon a Kissinger – dovremo farlo appendere”. (1)
Tre anni dopo la giunta militare appoggiata dalla CIA, e guidata dal fantoccio Pinochet, depose e uccise Salvador Allende.
Nonostante questo, non è più stato possibile riprendere il controllo delle miniere cilene da parte degli americani: un sentimento troppo radicato lega ormai la popolazione alla produzione di quel metallo che in passato è stato addirittura definito “il salario del Cile”.
Ma sempre di salario si tratta, appunto. Gli americani infatti hanno trovato un altro modo per tenere comunque sotto controllo la produzione di rame, senza mai permettere al Cile di diventare un paese all’altezza della sua ricchezza mineraria: il mercato.
Grazia alla possibilità di influenzare pesantemente i mercati mondiali, il prezzo del rame è sempre stato mantenuto al ribasso, arrivando addirittura ad obbligare i cileni a produrlo in perdita: nel 1993 il rame si vendeva a 73 centesimi per libbra, mentre produrlo costava 75. (2)
Chissà perchè, queste operazioni industriali vanno in profitto solo se i proprietari sono gli americani.
Da allora, l’industria del rame in Cile si è andata trascinando faticosamente, sempre più vicina al baratro del fallimento. Questo naturalmente ha comportato continui e pesanti tagli alle strutture di sicurezza delle miniere, con relativo aumento dei rischi per chi ci lavora.
In particolare, nella miniera di San Esteban, il soffitto della galleria era già crollato più volte, e c’era anche stato un incidente mortale, nel 2007. Nonostante le multe e le continue ingiunzioni degli ispettori, però, le modifiche di sicurezza - che avrebbero permesso ai minatori intrappolati di salvarsi subito - non sono mai state fatte: la galleria per l’uscita di emergenza c’era, ma mancavano le scale per salire in superficie. E così ora dovranno aspettare fino a Natale.
Nel frattempo però cantano l’inno nazionale, di fronte ad un presidente-fantoccio salito al potere, naturalmente, sempre con il consenso degli americani.
Massimo Mazzucco
1 - La frase originale è “We’re going to give Allende the hook”. La frase è emersa con la desecretazione dell’ultima parte dei cosiddetti
“Nixon Tapes”, le registrazioni segrete delle conversazioni nell’Ufficio Ovale, che erano iniziate alla Casa Bianca proprio nell’anno in cui Allende fu eletto alla presidenza.
2 -
Historia del cobre