Di Gennaro Carotenuto
Il primo pensiero è di allegria, allegria per Ingrid Betancourt e per gli altri 14 sequestrati liberati, tra i quali tre mercenari statunitensi, che in qualunque altro conflitto al mondo sarebbero stati da tempo passati per le armi.
Il secondo pensiero è perchè non si spenga la luce sulle centinaia di ostaggi che restano nella selva nelle mani delle FARC. Si vedrà se l’interesse dei benpensanti europei per la selva colombiana era genuino o era solo figlio del colonialismo mentale e razzista con il quale l’Europa guarda ai drammi del Sud del mondo. Se le luci sulla selva si spegneranno dovremo amaramente concludere una volta di più che è così, che la benpensante Europa si mobilita solo se qualcuno buca lo schermo. Altrimenti se ne frega.
Il terzo pensiero è per Álvaro Uribe, apparente trionfatore della giornata di oggi. La giornata per lui si era aperta nel peggiore dei modi, come si era aperta la settimana, il mese, l’anno. La Corte Suprema, con parole insolitamente dure, aveva preteso il rispetto delle proprie decisioni ... ... da parte del Presidente che non accetta che la sua stessa rielezione, nel 2006, sia stata viziata dalla corruzione nella forma e nella sostanza e che potrebbe perfino essere annullata.
Se è presumibile che l’azione sia stata preparata nel tempo, è evidente che la stessa sia stata giocata alla disperata ricerca di un successo personale. Per fortuna è andata bene, ma ciò non sposta i termini della questione, anzi se è possibile, se è dovuto ricorrere a giocarsi tutto con la liberazione di Ingrid, avendo fatto sempre di tutto per evitarla in passato, la vittoria di Uribe potrebbe essere la vittoria di un Pirro disperato.
Il quarto pensiero è per le FARC. E’ difficile non pensarle indebolite politicamente e militarmente. E’ difficile pensare alle FARC come chi tiene alta la bandiera di milioni di esclusi colombiani. E’ difficile non pensare che le FARC da anni sono oramai la scusa per i paramilitari per appropriarsi delle terre e consegnarle alle multinazionali. Ma allo stesso tempo è difficile pensare alla liquidazione delle FARC come un processo indolore e possibile, in una Colombia dove l’ingiustizia è causa della guerriglia e non viceversa.
L’interesse per Ingrid Betancourt da parte dei media e dell’opinione pubblica europea è stata in questi anni una cartina tornasole del colonialismo mentale con il quale l’Europa guarda alle cose del Sud del mondo. Ingrid è giovane, Ingrid è bella, aristocratica, elegante. Ingrid è francese, una di noi quindi. Ingrid è progressista. Ingrid buca lo schermo. Ingrid, lungi dall’esserne colpevole, ha occupato in questi sei anni completamente lo schermo, oscurando milioni di altre donne vittime di una guerra, quella colombiana, che conta più profughi, 4 milioni, che Iraq, Afghanistan e Darfur insieme.
Lungi dall’esserne colpevole, lungi dal giustificare la sua orribile e imperdonabile prigionia, Ingrid è stata soprattutto una foglia di fico servita a distorcere il conflitto colombiano in maniera manichea fino a renderlo incomprensibile. Visto dall’Europa e per chi nulla sa di Colombia, in piena logica post-11 settembre di “guerra al terrorismo”, le FARC che hanno tenuta sequestrata Ingrid rappresentano tutto il male in Colombia, laddove chi l’ha liberata, il governo paramilitare di Álvaro Uribe rappresenterebbe tutto il bene. E’ una visione manichea ed infondata del conflitto colombiano.
Reyes fu ammazzato in pieno territorio ecuadoriano, con un’azione militare tanto illegale quanto chirurgica, orchestrata dagli eserciti colombiano e statunitense: Ingrid, per i governi di Washington e Bogotà, non doveva essere liberata anche al prezzo di una crisi internazionale. Adesso le cose sono cambiate, in due mesi ancora molti scandali hanno pesato sull’uomo di Washington tanto da farlo decidere di legare la sua immagine alla liberazione della sua più acerrima nemica che bucava e chissà se bucherà ancora lo schermo rompendo il silenzio sulla Colombia. Una Colombia facile da digerire e dimenticare per gli stomaci delicati dell’opinione pubblica europea, che non vuol sapere dei contadini fatti a pezzi con la motosega dai paramilitari, di fumigazioni velenose come in Vietnam e di una guerra con la quale il paramilitarismo si è già appropriato di sei milioni di ettari di terra fertile, strappandoli ai piccoli produttori indigeni e afrodiscendenti e girandoli alle multinazionali.
La sesta vita di Ingrid Betancourt
Ingrid viene dal mondo delle oligarchie, quello della Colombia bene che chiude un occhio da sempre sulle ingiustizie e se ne fa complice, del narcotraffico, della corruzione, dello sfruttamento, delle voci critiche sistematicamente silenziate. È figlia di Gabriel Betancourt, che fu Ministro dell’Educazione al tempo di Gustavo Rojas Pinilla. È figlia di Yolanda Pulecio, già Miss Colombia e poi politica e diplomatica, che in questi anni ha girato il mondo accusando con coraggio Álvaro Uribe di essere il primo responsabile della cattività della figlia.
Nacque nel 1961 a Bogotà Ingrid, lo stesso anno di Zapatero e forse non è un caso, quando il suo paese era già desolato da più di un decennio dalla Violencia, che dura tuttora. Con i natali giusti, non poteva non fare le scuole giuste, il Liceo francese e poi il salto a Parigi con il padre Ambasciatore colombiano all’UNESCO. Lì comincia rapidamente una seconda vita, dorata come la prima. A vent’anni è già sposata con un diplomatico francese e prende quella cittadinanza comunitaria così preziosa che l’ha sottratta all’oscurità. Si laurea in Scienze politiche, e sarà madre per due volte. Ha fretta di vivere Ingrid e archivia quella vita per una nuova, la terza, di nuovo in America.
Torna in Colombia, divorzia, e si impegna in politica con il Partito Liberale. Collabora con César Gaviria, allora presidente e nel 1994, ad appena 33 anni, diventa deputata. È pienamente integrata nel sistema e l’aspetta una radiosa carriera, ma è lì che scatta qualcosa. E’ la corruzione che comincia a risultarle insopportabile. Quella corruzione con la quale il Cartello di Cali, uno dei più importanti nel paese, sta finanziando il presidente liberale Ernesto Samper che lei stessa appoggia. Resta nel Partito Liberale ma ne diventa una spina nel fianco. In pieno parlamento a Bogotà si mette in sciopero della fame contro la sentenza aggiustata che aveva assolto Samper per aver preso soldi dal narcotraffico.
Denuncia dagli stessi scranni del Partito Liberale in parlamento come questo fosse viziato da interessi mafiosi. La fischiano e la spingono giù con la forza. E’ il segno che il suo mondo, che alla corruzione e all’ingiustizia deve il proprio benessere, la sta espellendo e le dichiara guerra. Da quel momento saranno continue le minacce di morte e gli attentati, dai quali esce viva per miracolo. I sicari sono i paramilitari, i mandanti la parapolitica, la narcopolitica, lo stesso Álvaro Uribe, al quale contenderà la presidenza, che gliel’ha giurata.
Comincia così una nuova vita ancora, la quarta, al di fuori delle sicurezze del mondo dorato nel quale è nata, cresciuta, educata. Nel 1998 ottiene un buon successo personale con una nuova forza politica, il partito Verde Oxígeno, che unisce alle tematiche ambientali quelle della corruzione. È eletta senatrice, appoggia il predecessore di Uribe, Andrés Pastrana, ma poi se ne dichiarerà tradita. E’ protagonista di azioni clamorose per la società colombiana, distribuisce preservativi e perfino il Viagra, sempre in polemica con la corruzione. Ha un linguaggio diretto che piace alla gente, ma è sempre più isolata dal sistema politico. Nel 2002 si candida alle presidenziali. Dalla Francia, dall’Europa, c’è interesse per lei, ma in Colombia c’è il vuoto e il silenzio intorno alla sua candidatura. Attacca duramente Álvaro Uribe. Lo accusa carte alla mano di essere un paramilitare, complice di paramilitari e di considerare l’assassinio come una normale arma politica. Aveva ragione e da quando è stato eletto una media di 600 oppositori politici sono stati ammazzati ogni anno in Colombia. È troppo scomoda Ingrid per il candidato di Washington che si propone di spazzar via le FARC con una guerra senza quartiere. È scomoda ma è un grillo parlante che molti temono ma pochi ascoltano. Quando viene rapita non arriva all’1% nei sondaggi.
Comincia così la quinta vita di Ingrid, prigioniera delle FARC dal 23 febbraio del 2002. È la più angustiosa, quella che lei stessa definirà in una lettera alla madre “una non vita”. Era andata a San Vicente del Caguán, la località al centro della zona di distensione tra governo e guerriglia, che con la fine del governo Pastrana veniva smobilitata. Voleva testimoniare l’appoggio a quella comunità (una delle poche che il suo partito amministrava) e continuare a puntare sul dialogo con la guerriglia come soluzione alla guerra. Il governo se ne lavò le mani. “E’ colpa sua se è stata rapita” dichiarò il Ministro degli Interni.
Da allora sono passati sei anni, quattro mesi e una settimana. Ingrid è stata la più pregiata di un migliaio di disgraziati prigionieri delle FARC nella selva. Lei è l’unica che per i media occidentali conti qualcosa e le dirette di queste ore nelle quali la selva colombiana diviene boliviana e lei viene definita Premio Nobel lo testimoniano. Il contesto non conta nulla e neanche la bella francese serve per parlare della Colombia e della sua guerra dimenticata. Oggi parlano tutti di lei, i politici, le grandi firme del giornalismo, ma la Colombia sembra non esistere e dalle loro parole Ingrid sembra sia stata in questi anni sequestrata dagli extraterrestri.
Ingrid adesso è libera, salvata paradossalmente da Uribe che l’ha voluta e forse la vuole ancora morta. Lo hanno testimoniato i precedenti, le minacce, gli attentati, l’odio che il parapresidente della Colombia ha per lei. Un Uribe travolto da uno scandalo alla settimana al quale la liberazione di Ingrid, dà respiro. Qualcuno in Europa fantastica di una Ingrid restituita alla vita politica e addirittura futura presidente della Repubblica. Per adesso lasciamole cominciare la sua sesta vita, abbracciare i suoi cari e ricominciare a vivere. E’ solo la sua sesta vita e speriamo, ma siamo pessimisti, che la luce non si spenga sul dramma colombiano.
Gennaro Carotenuto