Che succede in Italia? Unico caso in Europa, secondo i nuovi dati Eurostat la diffusione di internet nelle famiglie diminuisce. Mentre la tv italiana impera, secondo un recente rapporto inglese.
di Antonello Angius
Con la parola “declino” e con l’espressione “perdita di competitività” nelle società e nelle economie globalizzate in genere ci si riferisce a una crescita inferiore a quella degli altri, non a un vero e proprio arretramento. Ma può succedere anche questo. Pochi mesi dopo la comparsa su giornali esteri (Times, Newsweek) di articoli ironici, conditi con una punta di invidia esibita, sulla scarsa diffusione di internet in Italia, paese nel quale i ritmi quotidiani sarebbero scanditi dalle conversazioni negli antichi selciati delle “piazzas” piuttosto che dai mouse, arriva ora l’ultimo
bollettino di Eurostat del 2 dicembre 2008 a tradurre voci e tendenze in numeri: nel primo quadrimestre del 2008 la percentuale di famiglie italiane che usa internet è passata dal 43 al 42 % rispetto a un anno prima.
Un dato umiliante per il nostro paese, perché siamo messi meglio solo di Romania, Bulgaria e Grecia (che però avanzano, non indietreggiano). E va detto che le statistiche Istat differiscono da quelle Eurostat in peggio: nel 2007 l’indice di diffusione di internet nelle famiglie per l’Istat è stato del 38,8% (rispetto al 43% Eurostat). La Sardegna (secondo l’Istat) è peraltro fra le Regioni meno disastrate, ... ... con una media di 2-3 punti superiore a quella nazionale e vicina alle regioni prime della classe (classe di ritardatari, s’intende), che sono la Lombardia, il Trentino e il Veneto.
Ancora più desolanti sono i dati sugli utilizzi specifici, in particolare quello sull’uso di internet a fini di informazione per la lettura di quotidiani e periodici online: solo 17 famiglie italiane su cento usano internet per informarsi. Peggio di noi solo Bulgaria e Romania! In Grecia la percentuale è del 19, in Spagna del 27. In Norvegia del 73%.
Con internet, si sa, se non sei utente sei utonto: negli acquisti online (di oggetti tecnologici, abbigliamento tecnico ecc.) dove a causa dell’analfabetismo telematico gli italiani pagano prezzi superiori rispetto ai loro vicini europei. Nella salute (altro dato rilevato da Eurostat), dove non saper consultare internet significa essere tagliati fuori dalle informazioni sui migliori standard terapeutici e di servizio. E nel lavoro, dove internet rappresenta un canale fondamentale per la ricerca e offerta di occupazione qualificata, ma solo il 7 % delle famiglie italiane usa la rete con questa finalità.
Il mix che ci condanna.
Per quale motivo il declino italiano nella fruizione dei media più moderni non è più solo relativo, ma persino assoluto? Non c’è un motivo unico, ma più probabilmente un mix esplosivo di motivi: il più alto indice di vecchiaia della popolazione in Europa, i bassissimi livelli di istruzione, con livelli di conoscenza reale ancora più bassi a parità di titolo di studio secondo i test internazionali (PISA), il forte peso di una tv generalista e povera di contenuti sono tutti fattori che più che sommarsi si moltiplicano, contribuendo a comprimere le potenzialità di internet. Tutto questo mentre sembra essere sempre più dimostrata una correlazione fra diffusione di internet e crescita del PIL.
Che speranze ci sono dunque, se anche il nostro ricambio generazionale sembra finire nell’imbuto televisivo del “macinato misto” dei reality, dei quiz e delle “fikscion” nazional-popolari, dove chi vince nell’Isola dei Famosi può vedersi esplodere la carriera artistica, o persino rigenerare quella politica (vedi il caso di Luxuria, corteggiata da Rifondazione Comunista per una possibile nuova candidatura dopo il suo successo nel reality).
L’influenza deleteria del mix italiano età-istruzione-potentati televisivi è una ipotesi, certo, ma corroborata da numerosi dati. L’autorevole Ufficio indipendente per le telecomunicazioni del Regno Unito (Ofcom) ha pubblicato recentemente (novembre 2008) il suo nuovo rapporto internazionale sulle telecomunicazioni, con le schede paese relative al 2007, dal quale emerge che l’Italia ha il più elevato numero di ore di visione televisiva individuale in Europa (230 minuti, ovvero 3,8 ore al giorno). Nel contempo, il nostro paese ha la più bassa diffusione dell’offerta multicanale a pagamento (pay tv) del continente (quella che ora si vuole incoraggiare raddoppiando l’IVA): solo il 22%, subito sotto la Spagna che ha il 27%, mentre la media europea viaggia attorno al 50%. Ancora, l’Italia ha il record internazionale della più alta percentuale di business da pubblicità televisiva, col 52% di incidenza sul totale dei media: la relativa quota negli Usa è del 38%, e nel Regno Unito del 27%.
Fa da contraltare, sempre nel caso italiano, la più bassa percentuale di spesa pubblicitaria su internet (3%), che nel Regno Unito (il dato europeo più alto) è pari al 19% Anche se fra il 2006 e il 2007 internet ha sottratto quasi l’1% del budget pubblicitario alle nostre tv nazionali. Se poi guardiamo agli interessi degli spettatori sui contenuti, nel campo delle notizie sportive la tv in Italia batte tutti, sempre a livello europeo, come media dichiarato di riferimento.
A fronte di questi dati, il fatto che abbiamo un presidente del consiglio proprietario di uno dei maggiori gruppi televisivi europei e di una grande squadra di calcio appare come una sorta di chiusura del cerchio nel mondo dell’iperreale. Da anni acuti osservatori, a cominciare da Montanelli, seguito più di recente da Umberto Eco, hanno definito quello italiano come un particolare tipo di regime di carattere mass-mediatico: un termine sempre più ricorrente nei blog, che trova i suoi connotati quantitativi nei bollettini sul rapporto fra gli italiani e i media.
Antonello Angius
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