Ogni sera appunta sul suo diario le esperienze quotidiane, riuscendo a mescolare ogni volta la interessante lettura sociale ad uno squarcio di umanità che solo l'occhio disincantato di chi arrivi negli USA per la prima volta riesce pienamente a cogliere.
Fabio de Nardis è anche direttore della rivista (cartacea e on-line) “il Dubbio”, una pubblicazione internazionale di analisi politica e sociale.
di Fabio de Nardis
Terza parte (9 Marzo - Oggi)
Vai alla seconda parte (15 Febbraio - 24 Febbraio)
Vai alla prima parte (15 Febbraio - 24 Febbraio)
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Martedì 23 Marzo 2004 – Teschio e ossa
Qualche giorno fa si parlava del fatto che Kerry e Bush da studenti universitari hanno condiviso la partecipazione a “Skull and Bones” (Teschio e Ossa), una setta segreta vecchia di 172 anni che ha sede nella prestigiosa Università di Yale. Non so per quale motivo, ma la simbologia mortuaria ha molto successo tra le confraternite universitarie americane. Se ricordate, anche qui alla UCLA ne esiste più di una che ha per simbolo un teschio. Non so se dipende dal senso del mistero oppure da un semplice gusto dell’orrido. Sta di fatto che entrambi i candidati alla presidenza degli Stati Uniti sono stati (e presumibilmente sono tutt’ora) membri di una massoneria e non intendono parlarne. In Agosto, Tim Russert della NBC ha cercato di saperne di più. Intervistando Kerry, gli ha domandato: “Entrambi siete stati membri di Skull and Bones, una società segreta di Yale. Cosa ha da dirci a riguardo?”. La risposta di Kerry è stata secca: “Non molto, perché è segreta”. Il giornalista ci ha riprovato a Febbraio con Bush, ma anche il Presidente in carica ha risposto che “la cosa è talmente segreta che non possiamo parlarne”.
Qui nessuno ha avuto da ridire, eppure il fatto che un Presidente e un Senatore siano membri di una organizzazione non democratica e si rifiutino di parlarne è una cosa gravissima. La democrazia è in primo luogo trasparenza e visibilità del potere e in questo modo si negano i presupposti della dinamica democratica. Cos’è questa società segreta, qual è il suo programma e per quale motivo i suoi adepti da adulti raggiungono posizioni di potere. Per quanto ne so, già tre Presidenti degli Stati Uniti sono stati membri della setta (i due Bush e William Howard Taft) e moltissimi sono coloro che hanno fatto una carriera fulminante nel mondo della finanza e dell’informazione. Gli interrogativi sono molti: una sorta di setta satanica? Un gruppo che funziona da governo ombra? Secondo la giornalista Alexandra Robbins, ex studentessa di Yale, è solo un aggregazione di damerini con un radicato senso di superiorità. Si riuniscono all’interno della “Tomba”, una specie di surrogato di tempio Greco-Egiziano riprodotto nel mezzo del Campus di Yale e nessuno sa cosa facciano.
È un organismo a cui non si può aderire ma da cui si viene segretamente cooptati. Pare che ad ogni membro venga dato un nickname che mantiene per tutta la vita. Bush padre era chiamato “Magog”, un nomignolo dato a chi vantava una maggiore esperienza sessuale (e chissà come chiamavano Bush figlio!). Ma sono i riti di iniziazione che ho trovato spassosi. Ron Rosenbaum, un giornalista che ha scritto un libro sull’argomento, afferma che gli “inziati” dovevano masturbarsi dentro una cassa da morto raccontando ad alta voce il proprio exploit sessuale. Ma ve lo immaginate il nostro War President che grida il suo amplesso dentro una bara? Se permettete una mossa di orgoglio patriottico, da noi le cose le facciamo meglio. Se non altro l’affiliazione massonica si inserisce dentro un piano di potere coordinato. Si organizzano colpi di Stato, si mettono bombe, si depistano indagini, si fa eleggere Berlusconi Presidente del Consiglio. Insomma, non è un gioco.
Pare anche che gli adepti a Skull and Bones facciano un patto di fratellanza eterna. Le dinamiche di questo patto non sono rese pubbliche (e forse è meglio). Ma a questo punto mi torna in mente la foto esposta a Venice Beach che ritraeva Bin Laden mentre sodomizza Bush. Siamo proprio sicuri che Osama non abbia frequentato Yale?
Lunedì 22 Marzo 2004 – John Kerry il sovversivo
La campagna elettorale per le presidenziali è entrata nel vivo del metodo americano, cioè quello di gettare fango sull’immagine dei candidati. Improvvisamente spunta fuori un dossier dell’FBI in cui si mostra come John Kerry, nel 1971, alcuni mesi dopo essere stato decorato al valor militare, sia stato seguito strettamente dai servizi segreti per presunta attività sovversiva in quanto membro del gruppo, diciamo pacifista, denominato Vietnam Veterans Against the War (V.V.A.W.). È noto ormai che dopo l’esperienza nel campo di battaglia, Kerry si sia impegnato attivamente nei movimenti di allora per sollecitare il ritiro delle truppe americane dal Vietnam e pare fosse anche un personaggio di spicco nel gruppo, specie dopo aver testimoniato di fronte alla Commissione per le Relazioni Internazionali del Senato. Nulla di segreto, tutto era noto da tempo, eppure oggi vengono tirate fuori quattordici scatole di documenti riservati su John Kerry presunto eversivo. È stato ripreso durante comizi e manifestazioni pubbliche e alla fine gli stessi vertici della FBI smisero di seguirlo perché non trovarono prove sufficienti per accusarlo di attività violenta a scopo di sovversione dell’ordine pubblico.
Già qualche tempo fa, mentre Kerry ancora concorreva per ottenere la nomination democratica, si è cercato di screditarlo tirando fuori lo scoop di una sua presunta storia d’amore e di sesso con una stagista del Senato (una categoria lavorativa che qui ormai coincide con la pornografia). Nulla di scandaloso nell’eventualità, ma l’America puritana proprio non lo avrebbe potuto perdonare. Per sua fortuna dopo un po’ si è smesso di parlare della cosa. È una consuetudine americana, sempre più diffusa anche in Europa. La politica non conta niente, mentre conta la rettitudine morale del politico. È la strana logica secondo cui l’uomo politico onesto in famiglia si presume sarà onesto anche al governo. Pubblico e privato si fondono e l’immagine pubblica finisce col coincidere con le abitudini private.
Comunque Kerry ha sempre reagito abbastanza pacatamente e anche in quest’ultimo caso, dopo essersi lamentato un po’ per il metodo, afferma che nel ‘71 era a conoscenza di essere sotto stretta sorveglianza perché gli uomini di Nixon erano convinti che il movimento pacifista fosse un crogiuolo di pericolosi rivoluzionari. E poi aggiunge, l’FBI non è più come quella di allora. Oggi è in prima fila nella lotta contro il terrorismo. Una frase che mi ha fatto riflettere.
Anche oggi come allora esiste un movimento che si oppone a una Guerra che, a detta di chi la sostiene, è necessaria a sconfiggere il terrorismo mondiale. Dunque, specie alla luce delle leggi restrittive della libertà individuale che sono state approvate negli ultimi anni in America, è lecito immaginare che anche oggi numerosi attivisti siano pedinati e sospettati di collusione con il fondametalismo islamico. Allora la storia si ripete. La differenza è che Kerry, mentre un tempo era contro la Guerra, oggi la sostiene e qundi è presumibile che possa condividere atti di potenziale intrusione nella privacy di liberi cittadini.
Qui sta il punto. Non è importante il passato di un uomo ma cosa rappresenti oggi. Qui in America tutte le manifestazioni, perlopiù spontanee, che si organizzano contro l’invasione dell’Iraq vengono represse violentemente e finiscono con qualche ferito e decine di arrestati. Proprio ieri mi sono soffermato sulla foto di un vecchio sacerdote in manette dopo aver partecipato a San Francisco a una piccola dimostrazione pacifista. È forse questa la grande democrazia Americana che si vorrebbe esportare nel mondo, dove il dissenso viene represso e la gente controllata a propria insaputa? Allora mi rimangio tutto quello che ho scritto sulla inesportabilità di un sistema politico-istituzionale. Questa prassi agli iracheni andrà a genio.
Domenica 21 Marzo 2004 – Il popolo della pace
Ieri, mentre Bush si autocelebrava , il popolo della pace è tornato in piazza, replicando la grande mobilitazione mondiale del 15 Febbraio 2003. Hanno manifestato un po’ ovunque, in Italia, negli Stati Uniti, nelle Filippine, in Inghilterra, in Corea, in Giappone, in Nuova Zelanda, in Egitto, in Turchia, In Svizzera, in Norvegia, nella Repubblica Ceca, in Svezia, in Polonia, in Finlandia, in Ukraina. Il mondo ha gridato un sonoro NO alla politica Americana e dei paesi che si sono resi complici di questo progetto indebito di ridefinizione dell’ordine mondiale atraverso la durezza delle armi. Ovunque è cominciata la battaglia delle cifre. In Italia, gli organizzatori affermano che i partecipanti sono stati due milioni contro i 250.000 dichiarati dalla polizia. Discussioni analoghe si sono attivate anche in altri paesi. L’ho sempre trovata una sciocchezza. Quando la piazza è gremita, il numero dei manifestanti è secondario; prioritario è considerare il significato e gli effetti della mobilitazione. Ancora una volta il movimento pacifista ha dato prova della sua enorme capacità di raccordo transazionale. Qui in America è riuscito a portare in piazza quasi 100.000 persone a New York e diverse migliaia a Seattle, San Fransisco, Denver, Chicago, addirittura a Crawford, in Texas, dove si trova il ranch della famiglia Bush.
Qui a Los Angeles si è organizzata una bella manifestazione a cui hanno partecipato almeno 10.000 persone (una enormità da queste parti). Il corteo si è dispiegato tra Holliwood Boulevard e Vine Street per poi concludersi di fronte al Pantages Theatre. Non è stato particolarmente colorato come capita da noi in Italia o in Francia, dove l’elemento simbolico delle bandiere e degli striscioni è molto sentito. Nei paesi anglosassoni ogni manifestante usa impugnare un cartello con su scritto uno slogan che riassume le ragioni della protesta. Quello che andava per la maggiore era “Bush lies” (Bush mente), oppure “Time of Truth” (Il momento della verità); qualcuno si spingeva fino al “Justice for Palestine” (Giustizia per la Palestina).
Dopo il 15 Febbraio del 2003, un giornalista del New York Times affermò che il movimento pacifista rappresentava l’unica grande potenza alternativa agli Stati Uniti, una frase ormai nota e spesso richiamata nei comizi dei leader della sinistra mondiale. Non è così. Un movimento non è ne potrà mai essere una potenza, almeno nel senso politologico del termine secondo cui il potere politico si identifica con la capacità di produrre decisioni strategicamente vincolanti. Ma esso, come voce critica della società civile mondiale, senza dubbio rappresenta una forma di potere fluido che non può non influenzare le classi poitiche degli Stati Nazione. In Germania, Francia, Spagna, così è stato; e ovunque le forze della sinistra libertaria e socialista si sono unite al coro pacifista. Anche il partito laburista inglese, o almeno gran parte dei suoi militanti, su questo piano, ha isolato Tony Blair. Solo in Italia, se si esclude la componente significativa ma minoritaria che fa capo a Rifondazione Comunista, il centrosinistra e in particolare i Ds non trovano il coraggio di prendere una posizione netta. Mi dicono che Fassino a Roma è stato contestato da alcuni manifestanti. Così come capitò anni fa a D’Alema quando dopo aver promosso la Guerra in Kossovo ebbe la faccia tosta di partecipare alla Perugia-Assisi. Ma mi spiegate che ci vanno a fare? E soprattutto, per rappresentare chi?
Mentre mi spremo le meningi per trovare una risposta a questo interrogativo, vado a fare una passeggiata a Venice Beach. L’Oceano è stupendo, ma dopo essermi visto una replica del film “Lo squalo” (titolo originale “Jaws”, che letteralmente vuol dire “Fauci”), non trovo il coraggio di mettere piede in acqua e mi accontento di contemplare il paesaggio. L’intera zona è molto caratteristica, specie di Domenica. È ricca di bancarelle, negozi etnici e artisti di strada. Di tanto in tanto si trova anche qualche predicatore che grida i suoi anatemi in mezzo alla folla indifferente. La maggior parte dei passanti sembra più incuriosita da uno pseudo-fachiro che dà prova di resistenza lanciandosi da una sedia sopra alcune bottiglie rotte; oppure si soffermano su alcuni ragazzi che improvvisano una partita a basket vicino alla spiaggia. Io invece rimango quasi ipnotizzato da un gruppo di hippie vestiti di mille colori che, dietro il dipinto di una donna nuda con scritto sul petto “Make Love Not War”, fumano mariuana e improvvisano un piccolo show musicale a base di chitarra, sassofono e percussioni. Più avanti rimango attratto da un simpatico fotomontaggio che ritrae George Bush e Osama Bin Laden intenti in un atto di sodomia. Indovinate chi è il passivo?
Sabato 20 Marzo 2004 – Il discorso di Bush
Ieri mattina Bush ha tenuto un discorso alla Nazione, trasmesso in diretta televisiva e replicato la sera, per celebrare (si fa per dire) il primo anniversario dall’inizio della Guerra in Iraq. È la prima volta che lo sento parlare in un discorso pubblico e ora capisco cosa intendevano i giornalisti quando definivano “lamentoso” lo stile oratorio del Presidente. Mi è sembrata una lunga e noiosa omelia intrisa di retorica patriottica e riferimenti religiosi. I soliti richiami alla lotta del bene contro il male, della civiltà contro la barbarie, a Dio che benedice i combattenti per la libertà, e così via. Una sorta di delirio politico di chi non sa più come giustificare il corso degli eventi. In prima fila ad ascoltarlo, nella East Room della Casa Bianca, era presente al completo tutta la cabala neconservatrice, da Wolfowitz, che con il tempo ha assunto gli stessi tratti somatici di Erich Priebke, a Condoleezza Rice, che se non fosse per la pelle scura sarebbe la copia sputata di Olvia, l’amante di Braccio di Ferro.
Ha fatto appello agli 83 Stati della coalizione affinché non abbandonino la lotta perché, cito, “ogni segno di debolezza legittima il terrorismo e sollecita la violenza suicida”, e continua, “noi siamo le nazioni che hanno riconosciuto la minaccia del terrorismo e che sconfiggerano questa minaccia”. Su questo punto è dovuto intervenire il Ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin a ricordare al caro Bush che la Guerra ha avuto il solo effetto di determinare una escalation di violenza terroristica trasformando l’Iraq, che fino ad allora non aveva alcun legame provato con Al-Queda, in un centro di smistamento per aspiranti Kamikaze. Bel risultato.
Ma Bush fa finta di non vedere e descrive una realtà che non esiste. Afferma che fino a tre anni fa, l’Afghanistan era sotto la morsa di un regime liberticida e che oggi è un paese democratico dove le donne vedono riconosciuti i propri diritti. Ha tralasciato il piccolo particolare che il nuovo governo ha si e no il controllo di Kabul, mentre il resto del paese è praticamente ancora in Guerra e le donne continuano a portare il Burka. Ma questo non importa; il delirio continua. Perché forse non ve ne eravate accorti, ma anche l’Iraq, finalmente liberato dalla dittatura Baathista, oggi si avvia ad essere un paese libero, pacifico e democratico. Tanto pacifico che, mentre Bush va avanti nel suo soliloquio, arriva la notizia di altri quattro Marines ammazzati dalla resistenza irachena.
A un certo punto Bush si è lasciato anche prendere la mano e smettendo di leggere il discorso che qualche povero impiegato gli aveva scritto cercando accuratamente di evitare l’argomento, se ne è uscito con la frase topica: “Il popolo degli Stati Uniti, dei suoi amici e alleati non vivranno più alla mercè di un regime fuorilegge che minacchia il mondo attraverso le armi di distruzione di massa”. E qui mi è scappata una grassa risata. Ma dico io. Vuoi raccontare al mondo che l’Iraq grazie all’America è finalmente un paese felice? Fallo pure, può darsi che qualcuno ci creda anche. Ma non te ne uscire con l’unico argomento per il quale rischi di perdere le elezioni, per cui Aznar le ha già perse, e a Blair poco gli manca.
Fino ad oggi ho sempre cercato con difficoltà di rintracciare nella figura di Bush qualche tratto di dignità, ma ora sono sicuro. È proprio idiota.
Venerdì 19 Marzo 2004 – Democrazia per l’America?
L’ex aspirante candidato nelle primarie democratiche Howard Dean, già Governatore del Vermont, ha deciso di non sprecare le energie vitali sprigionate nel corso della sua campagna elettorale e annuncia la nascita di un nuovo movimento che dovrebbe chiamarsi “Democracy for America”. Secondo le prime dichiarazioni, la nuova “Cosa” servirà a coltivare o sostenere tutti quei candidati di area democratica che condividono i valori progressisti espressi dal suo leader, e cioè la sanità pubblica, l’educazione generalizzata, la promozione della responsabilità fiscale dei governi. Anche se al momento Dean assicura il suo pieno sostegno all’ex concorrente John Kerry che non ha certo fama di essere tanto “progressive”. Insomma, una nuova lobby democratica mascherata da movimento solidale.
In realtà Dean ha sempre avuto fama di essere un po’ leftist e, da favorito, ha terminato quasi subito la sua corsa alle presidenziali proprio per questa ragione, anche se i maligni (compresa la madre) ci tengono a ricordare che ha governato il Vermont in maniera tutt’altro che progressista. Quella di sinistroide sembra più un’etichetta affibbiatagli dai media e nella quale egli ha finito per riconoscersi. Essa ha origine essenzialmente dalla sua estraneità alle grandi Corporation che in genere fanno a gara per lottizzare le campagne elettorali dei politici americani. Dean riuscì a mettere insieme milioni di dollari per la sua propaganda esclusivamente attraverso donazioni volontarie eseguite con il supporto di un sito internet. Questo colpì i commentatori politici di tutto il mondo perché in un certo senso dimostrava che la politica Americana può anche fare a meno delle multinazionali per finanziarsi. In realtà quei quattrini non saranno poi stati molti dal momento che, al termine della sua corsa, Dean ha lanciato un appello per una colletta necessaria a coprire i debiti pregressi.
Comunque siano andate le cose, il nostro Dean, nella nuova veste di pericoloso sovversivo d’America, comincia subito a far parlare di sé. Qualche giorno fa, durante una conferenza stampa, ha affermato che la Guerra in Iraq è uno dei fattori che ha determinato la successiva escalation terroristica, compreso l’ultimo attentato a Madrid. Niente di più lapalissiano per quanto ci riguarda, ma qui in America non tutto ciò che a noi pare evidente è altrettanto lineare. Le affermazioni di Dean hanno scatenato un finimondo. Kerry, che ha sostenuto quella Guerra, si è subito affrettato a prendere le distanze; i repubblicani lo hanno accusato di essere “out of mainstream” che letteralmente vuol dire “fuori dal corso principale”, cioè dalla linea generale della nazione. Alla fine, il nostro “democratico per l’America” ha dovuto moderare la sua dichiarazione affermando che l’incidente non era altro che il frutto di un cattivo giornalismo. Fine del Dean eversivo.
Purtroppo è così che vanno le cose in America. Appena osi dire qualcosa che va controcorrente ti viene subito appioppata l’etichetta di traditore della patria. È la logica totalitaria di quel Mainstream che non consente la presenza di qualcuno che sia “Out”. Negli anni Cinquanta un’affermazione del genere sarebbe costata a Dean un soggiorno assicurato in qualche manicomio di Stato, dal momento che quel “fuori corso” veniva spesso rielaborato come ‘fuori di testa”.
Più si va avanti più noto un graduale restringimento delle condizioni democratiche in Occidente. Il dissenso è sempre meno tollerato e il conformismo sempre più sollecitato. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Italia, gli oppositori alla Guerra in Iraq e in Afghanistan sono immediatamente stati etichettati come amici di Bin Laden e sostenitori del terrorismo globale. È la illogica conseguenza di una politica senza più appigli ideali che per esorcizzare il proprio fallimento storico abbandona la propia matrice secolare per gettarsi nelle braccia di una retorica fondamentalista e premoderna.
Giovedì 18 Marzo 2004 - ¿Quién es más macho?
Proprio quando la campagna elettorale per le presidenziali si stava facendo interessante con un dibattito di livello che spaziava dalla questione sociale al ruolo che gli Stati Uniti dovranno assumere nella ridefinizione del nuovo ordine mondiale, un sondaggio rileva che la maggior parte degli americani, soprattutto le donne, considera questi temi troppo “soft” per tenere alta l’attenzione sociale. Ciò che interessa veramente ai cittadini e ai giornali americani è definire il livello di mascolinità dei due candidati, elemento a quanto pare fondamentale per discriminare anche il loro valore politico. Finalmente l’America mi riappare come l’ho sempre vista. Quasi mi preoccupavo. Troppa serietà, troppo conflitto. Finalmente siamo tornati nel paese dei balocchi a cui media e telefilm ci avevano abituato. Anche il Los Angeles Times, parafrasando una vecchia commedia ispanica, si domanda: ¿Quién es más macho. John kerry o George Bush?
Naturalmente, le macchine propagandistiche dei due candidati si sono subito messe in moto e entrambi si affrettano a farsi riprendere in pose virili. Kerry, mentre cavalca una imponente Harley Davidson o durante una partita di hokey; Bush, con un ridicolo cappello da vaccaro nel suo Ranch nel Texas o mentre guida la Cigarette Boat del padre lungo le coste del Maine. Insomma, i programmi tornano ad essere del tutto superflui e gli esperti di marketing politico rientrano in gioco come attori protagonisti di quel teatrino postmoderno dove la politica è ridotta a comunicazione politica e i politici a merce di contrabbando.
Naturalmente Bush, in quanto War-President e Commander in Chief, torna ad essere il favorito. Tra l’altro Kerry pare abbia un look troppo elegante, qui dicono alla francese, e si sa che tra Francia e Usa non è mai corso un buon rapporto; inoltre, il suo linguaggio troppo forbito non è apprezzato da tutti gli americani. Dà l’immagine di essere troppo colto (che orrore!). E già, perché come ci ricorda Michael Messner, sociologo presso L’Università del Sud Carolina, e attento studioso degli stereotipi di genere, “esiste una particolare definizione di mascolinità in America, secondo la quale, se sei un intellettuale, che legge molti libri e parla bene, allora sei effemminato”. Insomma, per essere eletto Presidente degli Stati Uniti devi dare l’impressione di essere fesso e ignorante (a dire il vero anche in Italia ultimamente). E su questo Bush rischia di essere davvero imbattibile.
Entrambi hanno frequentato la prestigiosa Università di Yale dove sono riusciti a entrare nella esclusiva società segreta “Skull and Bones” (teschi e ossa), il cui accesso era impedito alle donne (e dove stava il divertimento?). Ma Kerry era troppo diligente per essere un vero uomo, mentre Bush tendeva a ubriacarsi spesso ostentando il suo disprezzo per l’Accademia. Evidentemente già studiava per diventare Presidente. Poi però c’è stato il Vietnam, una delle tante nefandezze della politica Americana, e Bush aveva troppa paura per partire, mentre Kerry si è imbarcato come volontario e pare anche che abbia ammazzato tante donne e bambini, dal momento che al suo rientro lo hanno decorato con la medaglia di bronzo al valor militare. E questo è molto macho.
Proprio ieri leggevo che un sergente della marina Americana si rifiuta di tornare in Iraq, dove è già stato per sei mesi, per combattere una Guerra inutile fatta per gli interessi economici della famiglia Bush. Per questo atto di disobbedienza civile rischia di essere processato con l’accusa di diserzione e di farsi più di sette anni di galera. Per me è un esempio da prendere, per gli americani è solo una donnetta e un codardo.
A questo punto non saprei dirvi chi sarà eletto. Francamente siamo al di là delle mie competenze politologiche. In compenso potrei dirvi l’altezza e il peso esatti di entrambi i candidati, dal momento che i giornali qui hanno smesso di parlare di economia e lavoro ma sono ricchi di informazioni sui tratti fisici, lo stile di abbigliamento e le abitudini sportive e alimentari dei due. La domanda allora mi viene spontanea: a quando un Presidente donna?
Mercoledì 17 Marzo 2004 – A scuola di Conflitto
Arnold Schwazenegger comincia a perdere colpi. Lunedì scorso, migliaia di studenti da tutta la California si sono riuniti a Sacramento per protestare contro il progetto di tagli alla spesa pubblica per l’istruzione. È un peccato che non possiate vedere le immagini della manifestazione. Striscioni colorati, pugni chiusi, quasi non sembra di stare negli Stati Uniti e mi tornano in mente i raduni studenteschi che tanti hanni fa organizzavo a Trastevere di fronte al Ministero della Pubblica Istruzione. Certo, in quel caso eravamo più di qualche migliaio e forse con una consapevolezza politica e sociale maggiore, ma l’entusiasmo, il senso della sfida all’autorità sono gli stessi. È la prima grande protesta che il nostro Governatore preferito si trova a dover affrontare, ma dalle prime dichiarazioni sembra non voler dare molto peso alla cosa. Forse c’è rimasto male. Non so se a Holliwood gli avevano spiegato che Governare uno Stato non ha nulla a che vedere con la liberazione del mondo da un’invasione di extra-terrestri robotizati, che i muscoli e la faccia cattiva non servono a niente. Qui si tratta di affrontare le pulsioni, le ambizioni, i sogni di centinaia di giovani che il prossimo hanno rischiano di dover pagare tasse salatissme per quell’accesso alla formazione universitaria che già adesso è un lusso che solo in pochi si possono permettere. Qui le famiglie cominciano a mettere da parte il denaro quando i figli sono ancora neonati nella speranza che un giorno possa servire a coprire anche solo parzialmente il costo delle tasse universitarie.
Ma questo alle autorità californiane importa poco. È la logica darwiniana che punta ad escludere chi non ce la fa e che qui negli Stati Uniti è l’ideologia dominante. L’istruzione di massa è un fatto per Europei, qui si punta a irrigidire i confini della stratificazione sociale. Dalla piazza qualcuno prova a gridare la necessità di tassare i ricchi per non penalizzare i poveri, ma sembra più un’implorazione che una dichiarazione di lotta. Qui sta il problema. Anche chi protesta per i propri diritti negli Stati Uniti, non lo fa all’interno di un progetto di trasformazione sistemica per la creazione di quella società di eguali che Marx aveva egregiamente descritto come quella società in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti. È piuttosto l’invidia di classe che emerge, il desiderio di essere come coloro contro cui si protesta. Non c’è consapevolezza vera. Qui l’uguaglianza non è un valore, non si lotta per gli altri ma per se stessi, per seguire quell’imperativo categorico del perseguimento della felicità intesa in primis come successo personale anche a scapito di chi non riesce a cogliere quelle poche opportunità offerte da un sistema tanto esclusivo.
Il conflitto diventa una specie di gioco e tutti sanno che altro non è che una simulazione di lotta, una forma di pseudo-partecipazione che non ha alcuna influenza su un sistema politico ed economico assolutamente impermeabile a qualsiasi forma di socialità. Ne ho la conferma leggendo un volantino appeso nell'ascensore del mio ufficio. Pare che il Labor and Workplace Institute della UCLA stia organizzando una summer school ad agosto per gli studenti interessati alle questioni di giustizia economica e sociale. Una sorta di full-immersion estiva dove i ragazzi verrebbero socializzati alla lotta sociale, con tanto di seminari tenuti da importanti leader sindacali. Sei settimane di rivoluzione al mare e poi tutti a casa nelle proprie famiglie borghesi a fare i bravi americani. Ma il conflitto non si impara in pochi giorni. È pratica sociale permanente.
Martedì 16 Marzo 2004 – La profondità del mare
Oggi mi sono visto con Adrian Favell, professore di teorie sociali e sociologia comparata alla UCLA. Gli ho proposto di costituire a Los Angeles una redazione del Dubbio, la rivista di scienze sociali che dirigo e che da quest’anno diventa internazionale. L’idea di un link con l’Italia lo interessa anche se mi è sembrato molto scettico sulla possibilità di costruire un network di studiosi negli Stati Uniti. Come egli stesso ha ammesso, qui il lavoro accademico è profondamente individualistico, tanto che diventa difficile fare gruppo. Allo stesso tempo gli accademici americani (almeno in campo sociologico) hanno una prospettiva “parochial”, cioè localistica, e difficilmente vengono attratti da aperture internazionali (e io che credevo fosse una peculiarità italiana!). Comunque non mi ha detto di no, ma preferisce prendersi un po’ di tempo e sondare l’eventualità che alcuni colleghi possano supportarlo.
È incredibile quanto sia difficile far vivere e funzionare una rivista giovane e fatta perlopiù da giovani intellettuali. Ho sempre pensato che rappresenti un elemento di vitalità oltre a sollecitare la riflessione e la discussione su tematiche di rilevanza sociale. Credo che l’esistenza di una rivista sia un tassello della ricchezza di una comunità scientifica. Ma evidentemente non sono in molti a pensarla come me. Il Dubbio esiste ormai da Quattro anni e in questo periodo ho incontrato più ostilità da parte dell’Accademia che solidarietà, tranne in casi limitati. Io continuerò a provarci con o senza il supporto delle Università. Credo che la morte di una qualsiasi rivista sia il sintono di un processo di impoverimento sociale e non intendo contribuirvi.
Sicuro del mio punto di vista, saluto il mio collega americano e vado come al solito a dare uno sguardo veloce al giornale. Leggo che Jose Luis Rodriguez Zapatero dichiara che entro il 30 Giugno ritirerà i 1.300 soldati spagnoli che al momento si trovano in Iraq a sostegno di una Guerra che, afferma, “è stata un errore basato su bugie”. L’unico modo per poter cambiare idea è una nuova risoluzione ONU che sicuramente non ci sarà e che comunque gli americani non vogliono. Anche se Bush si congratula con il leader socialista e minimizza gli effetti che la sua vittoria produrrà sulle relazioni diplomatiche tra i due paesi, gli analisti indipendenti già definiscono il trionfo di Zapatero un “disastro” per l’amministrazione Bush che perde il più importante alleato europeo dopo la Gran Bretagna. È ormai chiara l’intenzione del giovane leader socialista di ridefinire i rapporti di forza internazionali sfilando la Spagna dall’orbita Americana e riavvicinandola all’Europa, in particolare a Germania e Francia.
Solo in Italia, il Centrosinistra (di cui qua non parla nessuno) fatica a trovare un punto di vista unitario e non riesce neanche a prendere una posizione seria sul ritiro delle nostre truppe dall’Iraq. È un momento triste per la sinistra italiana che sembra aver perso completamente la bussola, incapace di produrre idealità e di offrire una prospettiva autonoma di cambiamento sociale. Si è schiacciata da anni nella gestione tecnica del presente e l’unica visione prospettica è rappresentata da opzioni di ingegneria politica e istituzionale come questa improbabile fusione elettorale tra assolutamente diversi che si cerca di organizzare in occasione delle Europee di Luglio. La sinistra in Italia senza Berlusconi non sarebbe nulla, dal momento che l’antiberlusconismo (sacrosanto) sembra essere il solo messaggio politico che viene dalle sue fila.
I ferrotranvieri a Milano protestano e sono gli unici che hanno il coraggio di ammettere che nel nostro paese esiste ancora una questione salariale; gli immigrati continuano a morire sulle coste italiane; l’Università è ormai agli sgoccioli e anche a causa di una riforma sciagurata avviata dai governi di centrosinistra; la disoccupazione cresce e la nuove occupazioni coincidono con forme di sfruttamento e precarietà. Di fronte a tutto ciò la ricetta dell’Ulivo è il listone riformista. Che tristezza per la nostra democrazia, così privata di una dinamica conflittuale. Per quale motivo gli Italiani dovrebbero votare Centrosinistra? Solo perché le barzellette di Berlusconi non fanno più ridere o perché esiste un’alternativa, un progetto, che dal latino proicio significa tendersi innanzi.
È questo che manca, la capacità politica di andare oltre il presente prossimo e di guardare a un futuro che forse non sarà mai, ma che rappresenterebbe quantomeno una direzione. È il ruolo che storicamente hanno avuto le utopie di cui oggi nessuno vuol più sentir parlare. Per dirla con Umberto Galeano, l’utopia è come una bella donna. Fai un passo verso di essa e lei si allontana, ne fai un altro e lei si allontana ancora; ma allora, dice il poeta, a che serve l’utopia? Semplice: a camminare.
Io non perdo la speranza. Quando avremo toccato il fondo in questo deficit di dialettica democratica allora probabilmente avremo modo di risollevarci. È un po’ come quando ci si immerge nel mare. Le acque sono molto profonde e qualche volta capita che la bombola smetta di funzionare. A quel punto si comincia ad apprezzare il significato dell’aria.
Lunedì 15 Marzo 2004 – Le grandi dicotomie
Oggi è un mese esatto che sono a Los Angeles ed è tempo di un primo piccolo bilancio. Senza dubbio avrei potuto fare di più ma sono comunque riuscito a recuperare moltissimo materiale per i miei studi e ancora ho molto da lavorare. Inizialmente avevo pensato a questo diario come strumento di divulgazione del mio lavoro come ricercatore alla UCLA, ma l’ambiente sociale e culturale in cui sono immerso da trenta giorni mi ha condizionato e ho preferito parlarvi di come funzionano le cose qui, politicamente, socialmente, culturalmente. Nello stesso tempo, la lettura della stampa quotidiana mi offre la possibilità di mostrare ai lettori italiani come da queste parti si elaborano le informazioni. Ciò che emerge è una fortissima attenzione per le questioni internazionali. Telegiornali e organi di stampa aprono regolarmente con le notizie dal mondo e ne danno una interpretazione affatto peculiare. Al momento sono due le questioni di maggiore interesse: la Guerra in Iraq e le dinamiche di cambiamento politico nei paesi della sfera occidentale. Due fatti a mio avviso connessi.
È ormai innegabile che l’adesione o meno a quella Guerra scellerata è divenuta una variabile che discrimina i livelli di consenso alle classi dirigenti occidentali. Shroeder, da tempo in crisi e malgrado i limiti della sua politica economica, viene riconfermato Cancelliere su una piattaforma programmatica che lo vede fermo oppositore accanto alla Francia di Chirac all’intervento bellico in Medioriente. Per la ragione contraria, Blair in Gran Bretagna è da mesi sotto il tiro dei media e dell’opinione pubblica con l’accusa di aver mentito alla Nazione sulla questione delle armi di Saddam (c’è maggior onta per un leader politico?). I socialisti di Zapatero stravincono le elezioni in Spagna con un programma pacifista, malgrado il grave attentato dell’11 Marzo che avrebbe potuto favorire Aznar e i popolari. Berlusconi, in Italia, si prepara ad affrontare una piazza gremita che lo accuserà di essere subalterno ai piani imperialistici del governo americano. E infine Bush non riesce ha dare seguito al suo progetto di esportazione globale dell’American Way of Life e per questo è accusato di incompetenza dai suoi stessi consiglieri. Come scrive Eddie Mahed Jr., un esperto di strategia politica del Republican National Committee, Bush non è riuscito a creare nuovo lavoro, non è riuscito ha trovare le armi di distruzione di massa attorno a cui aveva articolato il suo teorema della Guerra preventiva, e infine non riesce a rispondere in maniera efficace alle accuse del suo avversario democratico che ha ormai intrapreso una campagna di aggressione nei suoi confronti che sembra raccogliere il consenso degli americani. Insomma, gli effetti di questa Guerra sembrano ritorcersi contro chi l’ha voluta e sostenuta, facendo emergere una inedita società civile globale che sembra ormai in grado di determinare cambiamenti sociali significativi indipendentemente dalle strategie delle classi politiche istituzionali. Il movimento pacifista si è fatto da tempo potere costituente che non intende diventare potere costituito ma riesce a muoversi con disinvoltura su una dimensione transnazionale alternando antagonismo e cooperazione, a seconda delle contingenze politiche e degli obiettivi della protesta.
Nello stesso tempo, esso mette in luce i limiti della politica istituzionale nella sua forma partitica e nazionale laddove essa si mostra subalterna alle dinamiche globali di una ideologia neoliberale che produce nuove forme di disuguaglianza e sfruttamento e sovente si serve del potere militare degli Stati per poter estendere la propria sfera d’influenza. Si sono ormai definite le grandi dicotomie su cui si articolerà il conflitto politico del nuovo secolo. Guerra e Pace; Efficienza e Solidarietà; Disuguaglianza e Uguaglianza; Potere imperiale e Contropotere.
Domenica 14 Marzo 2004 – Iraq: un anno dopo
Mentre in Italia ci si prepara alla grande mobilitazione pacifista del 20 Marzo, in America si tirano le somme a un anno dall’inizio della guerra in Iraq. Come scrivono sul Los Angeles Times Doyle McManus e Sonni Efron, la caduta di Baghdad dopo soli ventuno giorni di combattimento ha mostrato al mondo la forza militare degli Stati Uniti, ma le difficoltà emerse nella gestione della fase postbellica hanno invece mostrato la grande debolezza Americana quando si tratta di costruire la pace e la democrazia. Come afferma Lee Feinstein del Council on Foreign Relations: “L’Iraq rappresenta i nostri limiti piuttosto che la nostra forza”. L’Amminitsrazione Americana che un anno fa è arrivata a mettere in discussione un sistema di alleanze che durava da oltre mezzo secolo, oggi si arrampica sugli specchi e implora l’aiuto dei vecchi alleati. L’iniziativa bellica nel Golfo Persico doveva rappresentare il grande trionfo della dottrina Bush della Guerra preventiva, aprendo la strada ad altri analoghi colpi di mano in tutto il Medio Oriente. Ma a giudicare dai risultati, nessuno parla più di estendere la grande Crociata in Iran o in Syria.
In fondo, il teorema democrazia vs. tirannia non ha mai convinto nessuno. Troppe sono le tirannie e le guerre civili che affliggono il pianeta, e mai ci si è mobilitati sollecitando o imponendo loro un processo di democratizzazione. Anzi, la maggior parte degli Stati che gravitano attorno alla sfera d’influenza statunitense, formando quello che qualcuno ha definito l’"Impero", non sono liberal-democratici ma regimi di polizia: si pensi ai paesi arabi "amici" come il Pakistan, l’Arabia Saudita, il Kuwait, oppure alle diverse realtà oligarchiche dell’America Latina. La democrazia e il capitalismo sono un qualcosa che riguarda quasi esclusivamente l’Occidente che è solo il cuore economico e militare dell’Impero, non la sua totalità. Anzi, la democrazia è uno degli elementi discriminanti tra il centro dell’Impero e gli Stati satellite.
Si tratta di un vero "sistema" con un centro saldamente protetto da un numero di cerchi concentrici che hanno sovente bisogno della guerra per poter essere messi in riga. La forza militare è intesa come supporto al consolidamento e all’espansione di un modello economico che è il mercato. Tra democrazia e capitalismo non c’è dubbio che sia il secondo elemento a prevalere. Per entrare a far parte dell’Impero, inteso come quel vasto sistema di alleanze politico-economico-militari che individuano il loro centro negli Stati Uniti, non occorre adeguarsi alla sintesi democratico-capitalistica, che ne rappresenta il verbo fondativo, ma è sufficiente abbracciare le ragioni dell’espansione economica in senso capitalistico. Il fatto è che questo teorema può funzionare solo se tutto fila liscio.
La Guerra ha prodotto un’accelerazione del terrorismo internazionale; ha deteriorato ulteriormente la già pessima immagine dell’Occidente di fronte alle popolazioni arabe; ha ridotto al minimo le possibilità che la questione israelo-palestinese si concluda pacificamente; ha garantito agli iracheni un futuro di sangue e Guerra civile, piuttosto che di pace e democrazia. Bush ha perso su tutti i fronti anche quelli interni. I consensi alle sue politiche calano giorno dopo giorno tanto che i principali esperti di strategia politica di area repubblicana non nascondono una certa preoccupazione sull’esito elettorale di Novembre. Bush continua a chiedere nuovi soldi per finaziare un progetto imperialista che è già fallito e intanto distrugge economicamente il suo paese. I cittadini cominciano ad abbandonarlo. Il popolo americano è troppo egoista per sostenere una piattaforma programmatica così rischiosa e senza apparenti guadagni, se non un’affermazione di potenza che ha smesso di sussistere da tempo. Come afferma Dimitri Sismes del Nixon Center: “L’idea del perseguimento di una democrazia univesale sarà pure attraente ma non conviene agli Stati Uniti”. È inutile negarlo, questo è quello che pensa la maggior parte degli americani. Un popolo che sostiene le guerre solo quando sono rapide e indolore ma che si irrita quando cominciano a costare troppo.
Sabato 13 Marzo 2004 – L’impero romano
Oggi mi sono fatto una passeggiata nel Campus con una persona interessante. Lunga barba bianca, alto, robusto, sandali ai piedi, pantaloncini corti e berrettino in testa. Gli mancava solo un binocolo a tracolla e lo avrei scambiato per un attivista del WWF venuto alla UCLA per osservare gli alberi rari (qui ognuno ha la sua etichetta) e gli uccelli (ce ne sono di tutti i tipi). Me lo sono trovato alle spalle nell’ascensore del mio edificio e si è forzatamente inserito in una rapida conversazione tra me e una collega del Global Fellow Program mentre le spiegavo i parametri della mia ricerca. Quando ho accennato che ero qui per studiare lo sciopero degli operai della grande distribuzione ha fatto come un sobbalzo e ha gridato: “come, tu dall’Italia vieni a studiare uno sciopero in America”. Non che non apprezzasse che un italiano mettesse bocca sui fatti di casa sua, ma mi pare di aver capito che la sua considerazione si riferisse al fatto che in Italia ci sia più conflitto sociale organizzato da studiare e quindi non capisse per quale motivo fossi venuto qui. Ne è nata una piccola discussione che è durata il tragitto necessario a raggiungere la Powell Library nella piazza principale del Campus.
In realtà abbiamo smesso quasi subito di parlare degli scioperi dal momento che il mio interlocutore sembrava più interessato all’Italia che agli Stati Uniti e dava anche l’impressione di conoscerla molto bene. Mi ha parlato di Roma, di Napoli, di Lecce, della Sicilia. Insomma, se l’era girata in lungo e in largo, tanto che la cosa mi ha incuriosito, dal momento che gli americani in genere escono dal loro paese solo per fare qualche guerra. Il giallo si è sciolto quando il vecchio e grosso signore mi ha confessato di essere un professore ordinario di Storia romana qui a Los Angeles. La cosa non mi ha meravigliato più di tanto. Gli americani sono da sempre studiosi attenti della nostra storia e in particolare del diritto romano, che forse è studiato meglio qui che da noi. Addirittura, l’imperialismo dell’antica Roma è assunto a modello di riferimento dai consiglieri di Bush per delineare i tratti dell’attuale politica estera statunitense. I vari Wolfovitz, Ramfield e gli altri Falchi dell’entourage di Bush spesso hanno affermato di non riconoscersi nell’etichetta di neoconservatori (o Neocons) che è stata loro affibbiata dai media internazionali, ma di preferire quella di neoimperialisti. La cosa è interessante perché un termine che ha sempre avuto un’accezione negativa, almeno nella storia recente dell’Europa, oggi viene scelto deliberatamente per connotare la politica di potenza di uno Stato nazione.
In realtà, l’attuale politica Americana ha ben poco a che vedere con l’espansione imperiale dell’antica Roma ma è forse meglio paragonabile a quella napoleonica nei primi anni del XIX secolo. I romani non imponevano il proprio modello ma lasciavano grandi spazi di autonomia politica e culturale ai popoli conquistati. Pur avendo una radicata consapevolezza della propria superiorità, essi erano sovente disponibili al contatto culturale e a una certa forma di integrazione. L’America no. Essa, in un’indebita pratica di assolutizzazione culturale, è convinta che il proprio modello sociale e politico sia l’unico possible e che in quanto tale debba essere esportato con ogni mezzo: politico culturale, nel caso del wilsonismo soft di Clinton; politico militare, nel caso della versione hard di Donald Ramfield e Condoleeza Rice. Si tratta di un’operazione politica che assume un alto valore evangelico, solo che il Verbo è quello di una illegittima affermazione di potere.
Proprio ieri sera ho partecipato alla presentazione di un libro di un certo Peter Singer, docente di Bioetica a New York. Il volume si intitolava “The President of Good and Evil” (il presidente del bene e del male). L’autore, prendendo spunto da alcuni discorsi pubblici del Presidente, rilevava il rigurgito eticistico che dopo l’11 settembre ha caratterizzato la retorica politica di Bush, mettendone in luce gli elementi contraddittori e spesso preoccupanti. Quando uno studente verso la fine del dibattito è intervenuto chiedendo un giudizio generale sulla politica dell’attuale amministrazione, l’autore ha risposto con una sola parola che però ho trovato molto più esplicativa di tanti discorsi intellettualistici: “Terrificante”.
Venerdì 12 Marzo 2004 – La Spagna esplode
Oggi vengo informato dall’Italia che una terribile esplosione a Madrid ha procurato la morte di 192 persone e il ferimento di altre 1400. Qui le notizie dall’Europa vengono con almeno nove ore di ritardo e solo questa mattina leggendo il Los Angeles Times riesco a saperne qualcosa di più. Nel Campus tutto procede come se nulla fosse successo. I ragazzi continuano tranquillamente a esercitarsi con il proprio skateboard, le ragazze scherzano come al solito. Anche intorno al mio ufficio si respira un’aria di indifferenza totale che mi disgusta. Nulla intacca la quotidianità degli americani. E onde evitare che la cosa possa indurre qualche senso di colpa, evitano di informarsi, costruendo un alibi che giustifichi il loro individualismo. È difficile vedere qualcuno con un quotidiano tra le mani, al massimo qui nel Campus si legge il Daily Bruin, giornale ufficiale della UCLA, che è distribuito gratuitamente e raramente guarda al di là di Los Angeles.
Leggo che il governo spagnolo fa pressioni per far addebitare l’attentato all’Eta. A tre giorni di distanza dalle elezioni nazionali un evento del genere spinge l’elettorato a orientarsi verso un governo forte e Aznar, da tempo in crisi di consensi, si è sempre mostrato rigido di fronte a ogni ipotesi di accordo con il popolo basco. In questo momento senz’altro gli conviene giocare la carta dell’antiterrorismo. Anche a Washington, dove in genere non vedono l’ora di poter accusare qualche musulmano di genocidio, questa volta si decide di non rovinare i piani elettorali del fedele alleato, e per bocca del portavoce del Dipartimento di Stato Richard Boucher, si afferma che se la Spagna crede che la responsabilità sia dell’Eta, gli Stati Uniti non hanno alcun motivo di pensarla diversamente. Ma che carini.
In realtà l’ipotesi non regge. L’Euzkadi Ta Askatasuna (letteralmente, “Patria e Libertà”) è un gruppo clandestino che si prefigge fini politici. Gli obiettivi dei suoi attentati sono accuratamente selezionati e raramente coinvolgono civili. Quando nell’87 in una attentato in un supermaket morirono 22 persone, i vertici dell’organizzazione chiesero scusa per i civili coinvolti. Inoltre l’Eta, proprio in virtù di questa sua pretesa politicità, annuncia e rivendica le proprie azioni con orgoglio, mentre in questo caso, l’unica rivendicazione pare sia arrivata da un gruppuscolo islamico che però tutti considerano poco credibile.
Un comandante della polizia spagnola afferma che comunque le indagini seguiranno più piste: quella dell’Eta, che fa piacere ad Aznar; quella di Al Qaeda, che fa piacere a Bush; oppure quella che considera la possibilità di un’alleanza improbabile tra le due organizzazioni, ipotesi che farebbe piacere a entrambi. A questo punto, proporrei di aggiungere anche qualche Ceceno, per far contento Putin; un paio di Palestinesi, per Sharon; e qualche irlandese impenitente, per non fare un torto al caro Blair.
E se invece provassimo con una Quarta ipotesi?
Giovedì 11 Marzo 2004 – La biblioteca del Campus
Oggi è stata una buona giornata, a cominciare dal clima. Dopo due giorni di caldo infernale l’aria si è un po’ rinfrescata rendendo tutto più semplice. Superati i tantissimi scogli burocratici sono finalmente riuscito ad accedere alla biblioteca del Campus. Bisogna dire che per quanto gli Stati Uniti rimangano un modello di efficienza organizzativa, ogni comportamento formale è regolato da una pesantissima burocrazia, fatta di una serie infinita di strutture amminitrative che, come sovente capita anche da noi, non comunicano assolutamente tra di loro e spesso entrano in conflitto a causa di inevitabili sovrapposizioni funzionali.
Per confermare il mio status di Research Scholar sono dovuto passare per almeno sette uffici: uno che mi consentisse di avere un mio studiolo; uno che mi desse diritto a un computer; addirittura un altro per la stampante e un altro ancora per il telefono (che non ho ancora mai usato); uno per avere un indirizzo di posta elettronica; uno per avere diritto a un minimo di copertura in caso di incidenti; e uno, infine, per ottenere la mia Bruin Card. Anche per iscrivermi nella mastodontica palestra del Campus (mens sana in corpore sano) sono passato per almeno tre filtri: Un ufficio per l’accettazione, uno per il pagamento e un altro per avere la tessera magnetica con tanto di foto. Questa è una peculiarità americana. Ti fotografano per qualsiasi cosa. Alla dogana, appena poggi piede sul suolo statunitense; all’Università, per ottenere il tesserino: e in fine in palestra. Ci mancava solo che mi fotografassero per consultare alcuni testi in biblioteca e avevamo fatto poker; anche se un’altra tessera me l’hanno data comunque, anzi, me ne hanno date due: una per poter ritirare i testi e un’altra prepagata, per poter usare la stampante.
Entrare in una biblioteca universitaria negli Stati Uniti è un’esperienza destabilizzante. In particolare la UCLA ha nel suo interno 12 megabiblioteche per un totale di oltre quattro milioni di libri e centinaia di riviste specializzate. Un italiano, abituato alle nostre umili biblioteche universitarie che raramente superano i trenta mila testi e qualche decina di riviste, ha bisogno di un po’ per ambientarsi, ma poi tutto diventa chiaro e semplice. Ogni procedimento è perfettamente informatizzato. Gli studenti hanno a disposizione almeno un sessantina di computer per sede dove consultare il catalogo dei testi, molti dei quali sono disponibili in formato digitale. Io personalmente ho potuto stampare una decina di articoli da riviste specializzate rimanendo tranquillamente seduto nel mio ufficio, limitandomi ad accedere al sito congiunto delle diverse library. Tra l’altro è una cosa che si può fare anche dall’Italia, dal momento che non occorre alcun codice di accesso per consultare le riviste on line.
Le difficoltà vere cominciano quando devi recuperare fisicamente i vari testi. Ognuno, ovviamente, ha il proprio codice che generalmente è fatto di alcune lettere, che definiscono il piano (dal momento che ogni biblioteca ne ha almeno quattro) e il settore, seguite da alcuni numeri che definiscono invece la collocazione esatta all’interno del settore. Il problema è che questi numeri sono in genere di quattro o cinque cifre; ciò vuol dire che per ogni volume bisogna iniziare un lavoro di ricerca minuzioso tra decine di migliaia di testi collocati in successione su scaffali alti almeno tre metri e lunghi non so dirvi quanto. Ogni libro che riesci a trovare ti dà un senso di soddisfazione e di potere che poche altre cose nella vita riescono a offrire.
In ogni caso è una sensazione stupenda. Per chi come me vive di ricerca, essere circondato da tutti quei libri è un qualcosa che ti inebria. Non mancava nulla. Tutto ciò di cui avevo bisogno era lì a disposizione, tanto che uscire con appena tredici libri tra le braccia mi ha fatto sentire povero. La sensazione è che qualunque nuovo prodotto editoriale prima o poi finisca tra quegli scaffali e non mi riferisco solo a testi in inglese, ma in tutte le lingue; dal cinese al giapponese, dall’arabo all’italiano. Ho trovato anche due mie libri che mai avrei immaginato potessero arrivare fin qua giù. L’ambiente interno è molto raccolto con spazi estremamente ampi per consentire agli studenti di leggere senza troppe distrazioni. L’atmosfera è così confessionale che sovente ti capita di scovare giovani che tra una pagina e l’altra si addormentano sui lunghi divani imbottiti che sono fissati tra uno scaffale e l’altro.
Il personale è numeroso e tutti sono estremamente cordiali e disponibili. Naturalmente ho impiegato un po’ per entrare nel meccanismo e ieri un addetto del servizio informazioni mi ha dedicato più di un’ora per spiegarmi tutti i meccanismi che alla fine erano estremamente intuitivi e ha anche insistito per fare lui al posto mio alcune operazioni di controllo sui testi. L’unico limite sta forse nella politica dei prestiti un po’ troppo liberale. Non c’è nessun limite al numero dei volumi che si possono ritirare e li puoi praticamente tenere quanto ti pare. Nel senso che nessuno te li richiederà fino a quando un’altra persona non ne avrà bisogno. In tal caso, non è neanche necessario ripassare per il filtro della biblioteca dal momento che anche questo passaggio è informatizzato. È sufficiente premere il pulsante RECALL accanto al codice del libro e automaticamente un sollecito viene inviato al ritardatario che è costretto a riportare il testo nel giro di una settimana.
Quando sono arrivato pensavo di dover inventare qualcosa di empirico, una piccola ricerca sul campo per giustificare la mia presenza qui a Los Angeles. Credevo che il lavoro di biblioteca fosse secondario, che oggi internet ti consente un contatto con il mondo stando tranquillamente seduto di fronte al computer di casa. Oggi mi sono reso conto che non è così. Poter accedere anche solo a una di queste biblioteche è un’esperienza per cui vale la pena partire. E quando pensi all’Università italiana, a come è organizzata, a quello che offre ai docenti e agli studenti, qualche volta, ti viene voglia di non tornare.
Mercoledì 10 Marzo – Le falle di Bush
La nomination di Kerry si fa sempre più vicina. Ieri ha stravinto in Florida, Louisiana, Mississipi e Texas raggiungendo quota 1.816 delegati. Ne servono 2.162 per aggiudicarsi la corsa. Anche Edwards, malgrado si sia formalmente ritirato dalla competizione, continua a essere votato dai suoi più entusiasti sostenitori (così come capita a Dean) e in Louisiana ha raggiunto un insidioso 16% che gli servirà come accumulazione di credito nella sua malcelata ambizione di essere scelto come vice di Kerry per la gara finale contro Bush. Al momento Kerry non intende scoprire le sue carte anche se alla fine non potrà non prendere in considerazione l’ampio consenso che Edwards continua a riscuotere tra i Democrats. Sembra non curarsi delle questioni interne al partito e si prepara alla battaglia finale cercando di indebolire l’immagine di Bush (e sai che ci vuole).
Qui emerge la schizofrenia delle campagne elettorali americane. Lo attacca sulle questioni ambientali, eppure Kerry negli ultimi anni pare abbia votato contro tutte le proposte di legge sostenute dalle lobby ambientaliste (che invece provavano una certa simpatia per Edwards); lo attacca sulla questione sociale, sulla salute e la previdenza, ma va detto che Kerry, democratico moderato, si è risvegliato paladino della causa dei lavoratori solo di recente, proprio qui a Los Angeles, dove è andato a esprimere la propria solidarietà agli operai in sciopero del settore alimentare, guarda caso, un giorno prima che la California votasse per le primarie e cinque ore prima che le Unions raggiungessero un accordo con i vertici aziendali. Lo attacca infine sulla Guerra all’Iraq, che ha votato, e sul Patriot Act, che ha sostenuto.
In ogni caso, non è un buon momento per Mr. Bush sotto il tiro dei media per i risultati disastrosi della sua politica economica e per le bugie sulle presunte armi di sterminio di massa (pare sia un’abitudine molto anglosassone). Clinton, che il mondo ricorderà solo per le sue scappatelle sessuali, in otto anni di governo è riuscito a creare 22,7 milioni di posti di lavoro, raggiungendo un livello di occupazione che secondo il Bureau of Labor Statistics non si registrava dal 1920. Nei tre anni di amministrazione repubblicana, invece, si è assistito a un calo di occupati pari a 2,2 milioni di unità. Ma Bush non si cura di questo. Lui è un War President e non può preoccuparsi dei giovani che rimangono senza lavoro, degli operai che sono privi di un’adeguata assistenza sanitaria, del costo della vita che cresce vertiginosamente. Poi tanto se qualcuno per la disperazione perde la testa e comincia a sparare a destra e a manca, si risolve tutto arrostendolo sulla sedia elettrica. E poi il possesso delle armi qui è un diritto inviolabile.
Lui deve pensare alla Guerra, a salvare il mondo e l’umanità dal demone terrorista. E che importa se per questo deve dire qualche bugia a fin di bene. In fondo il nostro caro Bush non è il capo dell’asse del bene? Questo linguaggio mistico mi fa tornare in mente un editoriale del Direttore dell’Unità qualche settimana dopo il terribile attentato dell’11 Settembre. Se non erro erano ancora in corso i bombardamenti in Afghanistan. Il pezzo cominciava con la citazione di queste due frasi: 1) "Crediamo in Dio perché con la grazia di Dio i missili americani falliranno il bersaglio e noi saremo salvi. Islamici del mondo uniamoci nel nome di Allah potente e misericordioso"; 2) "Dobbiamo liberare il mondo dal diavolo. Di questo siamo certi. Né la morte né la vita né gli angeli né i prìncipi né le cose presenti né le cose future, nemmeno le vette e gli abissi, ci separeranno da Dio. Possa Egli benedire e guidare questo paese".
La prima frase era del Mullah Mohammad Omar, capo dei Talebani e tuttora latitante, la seconda era di George W. Bush, Presidente degli Stati Uniti d’America. Mi spiegate la differenza? ... CLASH
Martedì 9 Marzo 2004 – Iraq democratico?
Senza nascondere un pizzico di orgoglio, i quotidiani americani danno risalto alla notizia che i membri dell’Iraqi Governing Council, sotto la supervisione dei militari americani e inglesi (quindi in totale serenità) hanno firmato la bozza costituzionale che dovrebbe aprire la via al processo di democratizzazione del paese. Lo stesso Bush rivendica la cosa come un proprio risultato che porterà entro il 30 Giugno alla formazione di un Governo sovrano deciso dagli elettori. Secondo gli accordi, il nuovo Iraq dovrebbe assumere una forma di governo repubblicana, federale, democratica e pluralistica. L’Islam, come religione ufficiale, sarà la principale fonte ispiratrice del processo legislativo anche se a tutte le religioni sarà consentito il diritto all’esistenza (almeno questo). Le lingue ufficiali saranno l’arabo e il kurdo.