di Antonello Angius
Cos'hanno in comune i prezzi impazziti di un mercato finanziario e il consenso populista? Il caso italiano, fra dramma e operetta.
Noise: con questo titolo l’economista Fischer Black esponeva a una platea attonita, presso la American Finance Association, le sue tesi sul condizionamento del “rumore” nei mercati. Era il 1986, Black era conosciuto come un esperto di valutazione dei beni di investimento, sui quali aveva costruito una rigorosa teoria dell'equilibrio dei prezzi. Ma accanto al modello teorico aveva coltivato lo studio delle dinamiche reali dei mercati, giungendo infine a dichiarare che “il prezzo si colloca rispetto al valore con un fattore 2, ossia può andare dalla metà del valore reale al doppio“. Inutile quindi illudersi che i prezzi dei mercati finanziari corrispondano a stime tecniche. Perchè nel mondo reale, dice Black, un numero considerevole di scambi viene effettuato da individui non informati, i “fools and gamblers”, gli sciocchi e gli speculatori, che con ruoli complementari vivono nel rumore. Gli unici peraltro che secondo Warren Buffet, uno dei massimi esperti mondiali di mercati finanziari, potevano alimentare i cosidetti “derivati” che hanno innescato l'ultima bolla speculativa e la successiva crisi economica planetaria.
Dunque anche se esistono le stime tecniche dei valori (
appraisals), per chi le sa e le vuole leggere, una parte rilevante – e in alcuni periodi preponderante – dei mercati con il proprio corollario di banche e di fondi lascia che l'informazione venga sovrastata dal rumore: voci, dati giornalistici inaccurati, erronei o “pettinati”, indicatori di mercato marginali assunti come bussola per le fiammate e le scommesse di un giorno, in attesa del rumore del giorno dopo quando i giornali di ieri saranno al macero.
Se questo accade nell'economia, dove comunque non mancano analisti indipendenti, metodi e algoritmi per identificare oscillazioni di prezzi ragionevolmente vicine ai valori reali, come si alimenta il rumore in politica, e come distinguerlo dall'informazione? Anche chi vota un politico fa un investimento, scambiando consenso per risultati attesi, e ha diritto a una corretta informazione prima e dopo le sue scelte. Ma dove sono, nel caso della politica, gli analisti indipendenti?
Prendiamo un respiro profondo e dalle acque di superficie della
politics italiana, schiumeggianti dei titoli del giorno, immergiamoci in profondità, ... ... dove passano le correnti delle
policies di sviluppo dei paesi europei. E' di fresca pubblicazione (25 giugno 2008) nel sito del National Audit Office, l'autorevole istituto inglese di valutazione indipendente delle politiche pubbliche, l'ultima verifica dei progetti nazionali per l'accesso all'alta istruzione. Scorrendo le oltre 60 pagine qualsiasi cittadino inglese può controllare i risultati ottenuti dalle proprie istituzioni: non quelli autodichiarati, bensì quelli rilevati dagli esperti del NAO. Sono state vagliate le istituzioni nazionali di coordinamento delle politiche per l'alta istruzione e le singole università, per ognuna delle quali è espressa con facili indicatori grafici (bollini grigi, verdi e rossi) la capacità di contrastare le discriminazioni socio-economiche, principale barriera di accesso all'alta istruzione. Un “Ufficio per l'Equo Accesso” controlla che ogni università raggiunga il proprio target relativo all'accesso di studenti provenienti da aree e da classi sociali svantaggiate. E' di prezioso supporto a tale scopo una specifica agenzia statistica per l'alta istruzione, che suddivide le famiglie di provenienza degli studenti in ben otto classi sociali, secondo reddito e occupazione, raggruppandole in
lower e
upper socio-economic backgrounds.
In Italia non esistono simili statistiche “di classe” mirate sul problema. Non esistono neanche progetti specifici, con target assegnati a ogni università, contro le barriere all'accesso. E non esiste un prestigioso istituto di valutazione come il NAO (per la verità è stata creata sulla carta, dal recente ministro Mussi, una mini Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca, l'Anvur, ma a tutt'oggi non ne è chiaro il funzionamento).
Ciò che esiste sicuramente sono le statistiche sull'alta istruzione: nel Regno Unito il 30% della popolazione fra i 24-64 anni ha un'istruzione terziaria (un valore evidentemente considerato inadeguato), mentre in Italia i laureati sono solo il 13 % (Ocse, Education at a glance 2007). Il dato italiano è, semplicemente, il peggiore di tutti i paesi Ocse, Turchia a parte. Ci hanno superato Grecia e Messico, ci ha raggiunto il Portogallo.
Ora risaliamo alla superficie della cronaca politica nazionale (e/o regionale) per porci una domanda italiana: una azione sistematica e puntigliosa come quella condotta in Inghilterra per l'allargamento dell'alta istruzione è di sinistra o di destra? In realtà la lotta agli svantaggi sociali e territoriali che ostacolano l'accesso è un passaggio obbligato se si vogliono conseguire risultati, e il NAO per tradizione e statuto opera in modo indipendente sia in caso di governi laburisti che tories. Grazie anche ai rapporti dell'analista pagato con fondi pubblici, l'elettore inglese sceglie presumibilmente, nel caso dell'alta istruzione come in molti altri campi in cui non mancano (anzi abbondano) analisi dello stesso tipo, la parte politica che gli sembra più adeguata. Quindi attraverso analisi che fanno informazione, e non rumore, è tendenzialmente possibile attribuire una corretta quotazione alla politica di governo.
La comunicazione povera
L'esempio dell'alta istruzione ha un valore speciale quando si parla di rumore: la qualità e integrità di un circuito di comunicazione dipende infatti da chi trasmette, dal mezzo di trasmissione e da chi riceve. I livelli di istruzione eccezionalmente bassi rendono presumibilmente l'Italia un paese i cui cittadini hanno difficoltà e poca disponibilità a ricevere informazioni complesse ed elaborate nel tempo. Un paese pertanto più sensibile alla disinformazione, anche perchè non è solo questione di titoli di studio: le statistiche ci riportano bassissimi livelli di lettura e una predominanza del mezzo televisivo non più riscontrabile negli altri paesi occidentali (Le diete mediatiche degli italiani nello scenario europeo, Censis 2006).
Se in Italia chi “riceve” ha tendenzialmente più difficoltà della media occidentale a distinguere il rumore dall'informazione, cosa accade sul lato “trasmissione”? L'organizzazione Freedomhouse, fondata nel 1941 da Eleanor Roosevelt, nel rapporto sulla libertà di stampa 2008 (relativo al 2007) scrive che “Il punteggio dell'Italia è migliorato da quando Silvio Berlusconi non è più primo ministro, perchè sebbene la rete dei media privati sia ancora concentrata nelle mani di Mediaset, le reti pubbliche non sono più sotto il suo controllo". I lettori traggano le loro conclusioni alla luce degli sviluppi successivi, nonché della cronaca politica recente: vera ghiottoneria per i giornali esteri, con vicende destinate ad alimentare nel tempo più l'aneddotica che la storia, in un vortice di commistioni fra tv pubblica e privata-presidenziale, soubrette che fanno provini da ministre, decreti blocca-intercettazioni e norme blocca-processi “nell'interesse-di-tutti-gli-italiani-per-fatti-commessi-prima-del-30-giugno-2002”.
Chi frequenta ogni tanto le rassegne stampa estere troverà che l'Italia viene considerata un caso politico “interessante”. In che senso? Il tono oscilla fra prudenza e stupore ironico. Come è possibile, ci si è chiesti, che abbia ancora una carriera politica un presidente che aveva inserito nel governo, come ministro della Difesa, un proprio avvocato poi condannato per corruzione di giudici in merito all'acquisizione di una casa editrice da parte del presidente stesso? E in un paese in cui esiste un problema di conflitto di interessi grande come un macigno, come è potuto accadere che le parti politiche di centrodestra e centrosinistra, pur richiamandosi ai valori delle democrazie occidentali – dove a cominciare dagli USA le norme sul conflitto di interessi esistono – non abbiano partorito alcuna normativa in proposito, nei loro turni di governo?
Ha scritto il Newsweek:
“The face is all too familiar. Italian billionaire Silvio Berlusconi has held the office of prime minister twice before, and his compatriots have grown comfortable with his slightly saurian grin. They're even complacent about the flamboyant media magnate's myriad conflicts of interest. At 71, he would seem to offer the same old same old” (La faccia è anche troppo familiare. Il miliardario italiano Silvio Berlusconi ha ricoperto la carica di primo ministro due volte in precedenza, e i suoi compatrioti si sono trovati a proprio agio col suo gran sorriso un po' sauriano. Essi sono persino compiacenti circa la vistosa miriade di conflitti di interessi del magnate dei media. A 71 anni, sembrerebbe offrire la fotocopia del passato).
L'epifenomeno vivente del rumore
Difficile legare una spiegazione del caso italiano all'ipotesi del pifferaio magico che ipnotizza i suoi connazionali, vocati al populismo (= ideale rapporto diretto del popolo col leader, mentre le istituzioni e la divisione dei poteri passano in secondo piano) e al torpore etico. Per quanto questa possa essere una tesi storico-giornalistica plausibile: Montanelli diceva che gli italiani non si sono mai liberati del fascismo. Può essere giusto invece il “Basta parlare di Berlusconi”, se si inquadra il personaggio all'interno del circuito del rumore italiano come un epifenomeno: l'epopea di un arcitaliano, istrionico e spregiudicato, che ha saputo creare il più ricco impero del paese (dopo la mafia) su una concessione televisiva ad personam, cimentandosi con sciabola e fioretto nella propria telenovela politico-giudiziaria.
Dunque la cornice esplicativa può essere quella del particolare circuito del rumore italiano, i cui elementi sono stati in parte richiamati: in primo luogo la difficoltà di ricevere informazioni indipendenti sui risultati di governo, perchè tali informazioni non sono istituzionalmente alimentate nel paese e perchè i destinatari sono poco ricettivi per condizione socio-culturale oggettiva. C'è poi da chiedersi chi ci guadagna a vivere in una condizione connotata dal rumore piuttosto che dall'informazione, dove l'informazione, sia in senso economico che politico, implica che quando si dichiara di voler raggiungere un obiettivo (un benchmark, un tasso di istruzione, di occupazione, un livello di potere d'acquisto) ci sarà poi chi controlla autorevolmente se quel risultato è stato raggiunto, comunicandolo con semplicità all'opinione pubblica, la quale magari prenderà il vizio di attaccarsi proprio ai risultati per capire se vi è stata una buona gestione.
Anche in politica come in economia il rumore tocca tutti almeno indirettamente, ma coinvolge più strettamente i soliti “fools and gamblers”, i quali possono essere prevalenti in un periodo storico o in un paese. Gli sciocchi e gli speculatori della politica si trovano nei piani bassi e nei piani alti. I primi, in basso, investono il proprio consenso, sia a destra che a sinistra, in cambio di programmi vaghi e non misurabili e di promesse emozionali. Ai piani alti vi è invece, da noi, la casta per eccellenza, quella della politica parlamentare nazionale e regionale. Sono i gestori dei “fondi comuni di consenso”, che nel circuito del rumore si giocano le adesioni con tecniche pubblicitarie, con la ricerca di immagini “percepite” su parole d'ordine (sicurezza, lavoro ...) oltre che con gli scambi clientelari. Una casta rampicante unica al mondo per quantità di privilegi anche perchè la propria competizione, a differenza di quella dei gestori di fondi finanziari, non ha nulla di feroce: chi perde non rischia drammatici tracolli ma resta nel circuito, alla peggio con un ricco vitalizio dopo comparsate parlamentari.
Alternanza da repulsione
Il circuito del rumore italiano è, naturalmente, anche un circolo vizioso. Che condanna il paese alla regressione, da tempo in atto, di benessere, competitività, prestigio e cultura, mentre il consenso nazionale (e forse anche quello nostro regionale) sembra muoversi a tentoni punendo di volta in volta l'ultimo turno di governo, con una alternanza quindi da repulsione e non da attrazione: un ping pong elettorale interno alla casta, perchè non ha prodotto innovazioni nella trasparenza del contratto fra eletti ed elettori con bilanci d'azione certificati.
Non è sicuro, peraltro, che per uscire fuori da tale spinta involutiva siano utili gli scossoni: un leader caduto in disgrazia può diventare oggetto di lanci di monetine, ma anche le monetine sono rumore, ovvero fanno parte delle reazioni uguali e contrarie “di galleggiamento” degli italiani, come ha dimostrato negli anni '90 il riflusso successivo al periodo di Mani pulite, quando alcuni indagati rimasti a galla grazie a prescrizioni e slalom giudiziari hanno potuto trasformare i giudici che recuperavano capitali e tangenti da eroi in persecutori.
"Un buon politico è colui che si rende sempre meno indispensabile. Deve creare le condizioni per cui le cose funzionino per il bene dei cittadini anche senza il suo continuo intervento": lo ha scritto l'economista Tito Boeri. In questa frase c'è tutto il senso di buone
policies che lascino agire una valida amministrazione pubblica e buone agenzie di sviluppo, l'idea di un lavoro politico che lascia poche tracce personalistiche in favore di tracce più durature, di tipo organizzativo e progettuale. Quanto sono assimilabili a questa cultura e a questo stile le nostre forme di leaderismo? Non esitono colpi di genio nè intuiti personali che possano tirar fuori un paese o una regione da una spirale involutiva di bassa istruzione, produttività e competitività: la strada, incerta e di lungo periodo, è fatta giocoforza di dettagli, metodologie di lavoro, informazione e controlli minuti, nel continuo confronto con le correnti sommerse e silenziose, molto sotto il cronachismo politico nostrano, delle policies di sviluppo più efficaci.
Antonello Angius
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