Visto le reazioni - comprensibili, peraltro - di molti iscritti alla risposta di Furio Colombo a luogocomune, abbiamo voluto pubblicare un suo recente
articolo, che fra l'altro sembra condensare in maniera cristallina molti dei temi che noi trattiamo quotidianamente. Soprattutto quello della "presunta sinistra" italiana.
CON CHI PARLO?
di Furio Colombo (da l'Unità del 27.11.04)
La sera del 19 novembre sono stato invitato a parlare ad un gruppo di iscritti Ds della sezione “Forte Aurelio Bravetta”, un punto della immensa cerchia suburbana di Roma.
Trovarsi di fronte a decine di persone, giovani e anziane, che hanno appena finito di fare tutti i tipi di vecchi e nuovi lavori, un po’ affannati e con il casco del motorino sotto il braccio, di pensionati ancora attivi... ... che fanno molte cose e sanno molte cose perché seguono gli eventi con attenzione e perché sono impegnati con la politica da una vita, donne e uomini che hanno opinioni, certezze, incertezze e idee, è una bella responsabilità.
Il direttore de l’Unità deve spiegare, nel modo più chiaro e più persuasivo possibile, la vasta differenza che si vede ogni giorno fra i titoli, le interpretazioni dei fatti del nostro giornale e le “finestre sul mondo” delle tante televisioni italiane. Mostrano tutte lo stesso mondo: quello di Berlusconi. Non ha quasi nulla a che fare con il nostro.
Nostro di chi? Alcune decine di militanti e di iscritti, che non si astengono certo dal continuo esaminare gli eventi quotidiani, scrutavano attenti.
Cercavano di decifrare quel tipo di affanno, di enfasi che c’è nella comunicazione politica (certo nella mia) quando sei convinto di parlare di eventi straordinari (straordinariamente pericolosi e assolutamente unici) per dire che c’è, dal punto di vista del vivere democratico, una grave emergenza, un pericolo.
Devo avere pronunciato la parola “regime”, e ho avuto l’impressione che un piccolo fremito (di comprensione o di irritazione) abbia diviso la piccola folla. Il segretario della sezione, attento e benevolo, chiamava per nome i partecipanti e prendeva nota degli interventi. Non ero solo a parlare. La Federazione Ds di Roma aveva inviato il giovane esperto di politica estera Fabio Nicolucci.
Il tema era «Interpretiamo insieme le elezioni americane» e - dico io - confrontiamole con l’Italia, situazione e attese.
Dunque il giovane rappresentante della Federazione Ds romana ha parlato degli Stati Uniti. Ha detto che George Bush ha vinto perché ha saputo toccare corde profonde, interessi e valori di molta gente. E che Kerry ha perso perché il suo linguaggio e i suoi argomenti interessavano soltanto le élite colte delle città.
Poi ha parlato della situazione italiana e ha detto francamente, con un sorriso gentile: «La parola regime mi provoca l’orticaria».
È stato accolto, come me, da applausi rituali e scrutato con la stessa attenzione. Da che parte stiamo? Sembravano chiedere a se stessi - più che a noi - i nostri ascoltatori. Come fanno ad esserci linguaggi così diversi, così distanti, da cui non si possono trarre le stesse conclusioni, in questa piccola stanza piena di attese e di impegno politico, in un punto della grande periferia romana?
Chiarisco per i lettori. Primo, ho ascoltato il giovane rappresentante della Federazione Ds di Roma presentare la vittoria di Bush («Un saper cogliere lo spirito del Paese») con parole che ricordano l’elogio tributato a Berlusconi in molte analisi Ds dopo le elezioni del 2001. Si diceva che «Berlusconi aveva colto la domanda di innovazione della maggioranza degli italiani».
Nessun commentatore americano, che non sia un repubblicano militante, condividerebbe l’analisi di Nicolucci sulla vittoria di Bush (verificare su tutta la stampa e tutti i “transcript” televisivi di quel Paese).
D’altra parte, nessun commentatore europeo ha mai colto spunti o aspetti di innovazione in Berlusconi e nella sua gente. E oggi non lo direbbe più nessun italiano che non si chiami Bondi o Schifani. Finti tagli di tasse, condoni edilizi che hanno fatto scempio del Paese, promesse impossibili per tutti e favori, anche grandi, per alcuni fedeli che non si allontanano mai dal leader, oltre al controllo totale delle informazioni, sembra essere la formula del governare di Berlusconi.
Secondo. Una cosa accomuna Bush a Berlusconi. Entrambi vengono dal passato. Sono il mondo delle lobby e dei privilegi. Si fanno scortare da squadracce di intolleranti, religiosi o leghisti o affaristi. Portano molto all’indietro la civiltà dei loro Paesi. Producono indebitamenti spaventosi e privilegi giganteschi. Sono, come in certi film dell’orrore, le ombre del passato che cercano di impedire ai cittadini normali la vita normale. Bloccano il futuro, come se si fosse rotto l’orologio del tempo, e la Storia ricominciasse dai suoi punti peggiori: disprezzo per la legalità, barbari pregiudizi religiosi che diventano legge, false affermazioni accreditate dai media, saldo sostegno ai più ricchi, spaventoso destino di guerra per i poveri.
Terzo. Berlusconi ha portato all’Italia un problema in più. Ha imposto subito un rigoroso regime mediatico, fatto di proprietà (il primo ministro è il maggiore proprietario tv del mondo), di illegalità (il primo ministro, che è proprietario delle televisioni private, controlla dalla sua postazione di governo tutte le tv di Stato e le usa come un teatro dei Pupi pronto a rappresentare le sue gesta) e di intimidazione (il primo ministro, quando vuole, taglia la testa al Corriere della Sera; quando vuole caccia via dalla tv di Stato Enzo Biagi, il maggior giornalista italiano).
A guardia del regime (ci racconta il 26 novembre il notista politico Francesco Verderami) Berlusconi si prepara a schierare «mille giovani pronti per avviare sul territorio nazionale una campagna con lo slogan “Forza Silvio”, che potrebbe diventare un movimento, e domani magari un partito».
Che cosa sia un “regime mediatico” e quali siano le sue conseguenza di frantumazione della democrazia e di controllo dei cittadini anche senza i carri armati, ce lo ricorda, in questi giorni, una accurata ricostruzione di quel che in America, negli Anni Cinquanta, è stato il fenomeno del “Maccartismo”, la caccia alle streghe, o meglio a presunti comunisti, nella cultura, nel giornalismo, nella diplomazia, nel mondo dello spettacolo e persino delle Forze armate americane. Oltre a bloccare, intimorire, spaccare o istigare al peggio tutto il Paese, quella macchina di persecuzione è costata la libertà o la vita ad almeno diecimila persone, terrorizzando o riducendo a spie e delatori centinaia di migliaia di altri. La più paurosa descrizione del fenomeno è di Philip Roth, che ci fa notare allarmanti somiglianze col presente italiano: «McCarthy comprese il valore spettacolare dell’infamia e imparò a soddisfare i piaceri della paranoia. Ci portò indietro, al Seicento, alla gogna. McCarthy era un impresario. Più barbaro lo spettacolo, più grande il disorientamento e lo spasso». Ricordate quando l’Unità veniva definita “giornale omicida”, e i suoi direttori e articolisti “fiancheggiatori del terrorismo”?
Scrive Vittorio Zucconi (la Repubblica, 26 novembre) « C’è chi benedice la televisione per avere smascherato e fermato Joe McCarthy, cinquanta anni orsono, con una implacabile diretta di 187 ore ininterrotte (...) c’è chi benedice il presidente Eisenhower, che pose fine alla Commissione McCarthy quando cominciò ad attaccare le Forze Armate (...) ma cinquant’anni dopo, la domanda, di perfetta attualità, rimane: è possibile proteggere una democrazia dai suoi veri nemici senza compromettere l’organismo che si vuole difendere?».
È possibile - come ci dimostra l’accurata ricostruzione di Zucconi - se, in difesa della democrazia, resta libera la televisione, come nel caso delle 187 ore di trasmissione in diretta delle udienze persecutorie del senatore McCarthy, che hanno aperto gli occhi ai cittadini americani; se si può contare su un argine istituzionale (è arrivato in ritardo, il presidente Eisenhower, ma è arrivato) se l’opinione pubblica resta viva e può essere risvegliata. Sembrano condizioni da fiaba, ma sono i tre fatti che hanno salvato gli Usa dal restare soffocati nel regime del Maccartismo. Molti, in quegli anni, e durante quella persecuzione, hanno negato di essere vittime di un regime, per convenienza, per paura, per salvarsi. Ma non lo hanno negato coloro che hanno tenuto testa. Dice oggi Arthur Miller, uno dei grandi perseguitati e dei grandi avversari del Maccartismo (uno dei grandi del teatro americano), uno che non ha mai ceduto: «La paura paralizzava tutti, ma nessuno voleva associare il proprio nome al mio. Solo molti anni dopo mi arrivarono scuse e ripensamenti. Ma insieme a tanta vigliaccheria voglio ricordare coloro che si sono battuti come leoni. Oltre al coraggio, c’è qualcosa di allora da ricordare anche oggi: abbiamo cominciato a reagire alla richiesta di comportamenti politici basati sulla paura» (articolo di Antonio Monda, la Repubblica, 26 novembre).
Serve ricordare tutto ciò nell’Italia di oggi? Serve perché ci dice che in quest’Italia sottoposta ad amministrazione controllata, in cui il ministro leghista Castelli si ribella, come in Sudamerica, al presidente della Repubblica, il ministro leghista Calderoli propone ai cittadini di farsi giustizia da soli, come nel mondo primitivo, il Primo ministro finge di tagliare le tasse, nella peggiore legge Finanziaria della vita italiana, e tutto il regime mediatico si schiera per celebrarlo come un Cesare vincitore mentre nessuno prima di lui aveva tanto impoverito l’Italia, noi, che dobbiamo opporci, siamo divisi.
Io non so se il giovane funzionario della Federazione romana parlava soltanto per se stesso.
Nel momento più buio, sottoposto al controllo mediatico più rigido della televisione e della stampa italiana, è venuto a dire che a lui «la parola regime fa venire l’orticaria». Lo ha detto accanto al direttore de l’Unità, il giornale che da anni descrive dettagliatamente le vicende di questo regime, con qualche conseguenza personale per chi vi lavora.
Pensavo che il nostro compito, quella sera, fosse di dare e di ricevere coraggio (così succede quando si va a parlare nelle sezioni Ds in Italia). Evidentemente c’è anche un altro progetto: pretendere (o credere davvero, chissà) che questo Paese, nel quale è stata appena approvata la Legge Gasparri che blocca totalmente la libertà di stampa, sia un’Italia normale a cui guardare con aria composta per prepararsi a una regolare alternanza. Il suggerimento sembra essere che, altrimenti, comportandosi come Arthur Miller, si può dare l’impressione di diventare sovversivi.
Posso dire che in quel momento mi sono sentito solo? Mi sono chiesto: con chi parlo?
Furio Colombo