di Luca Roverselli

Domenica 20 maggio ricorre l’anniversario di un’impresa a dir poco miracolosa: nel lontano 1927 infatti le notizie storiche concordano nell’affermare che fu realizzata la prima trasvolata atlantica senza scalo, portata a compimento da parte di un piccolo aeroplano molto simile ad un aereo da turismo dei nostri giorni ma dotato di un apparato propulsivo che oggi apparirebbe estremamente pesante e inefficiente. L’avventura è molto poetica e lo spirito ricorda le imprese cavalleresche di altri tempi, ma la domanda nasce spontanea: poteva veramente un apparecchio con quelle caratteristiche e di quelle dimensioni raggiungere una simile performance? Vediamo di analizzare il problema in modo logico.

Secondo la storia il 20 maggio 1927 si alza in volo da New York lo “Spirit of Saint Louis” condotto da Charles Lindbergh e appena dopo il decollo mette la prua verso la lontana Europa, dove giungerà al termine di un avventuroso viaggio alla media di 188 chilometri orari, atterrando felicemente all’aeroporto di Le Bourget nei pressi di Parigi.

Ad un esame un po’ attento dei fatti emergono però alcuni problemi di carattere tecnico a dir poco inquietanti. Anzitutto le caratteristiche tecniche del motore risultano incompatibili con la massa che doveva possedere al decollo il velivolo di Lindbergh. Sono dichiarati infatti 240 cavalli e l’aereo, al momento della partenza da New York, superava i 24 quintali, giustificati a quanto ci è detto, dall’imbarco del carburante necessario per portare a termine la lunga trasvolata. A scopo di paragone un Piper PA32 di dimensioni equivalenti, molto più moderno e dotato di un propulsore da 300 cavalli, ha una massa a pieno carico di 1300 kg ed è facile capire che se lo appesantissimo di più di una tonnellata, avrebbe sicuramente qualche problema a librarsi in volo. Ma oltre a ciò sorgono altri problemi. Non si tratta solo del fatto che l’aereo è troppo pesante per riuscire ad alzarsi in volo.

Da questo momento le contraddizioni iniziano infatti ad accatastarsi le une sulle altre in modo grottesco, capaci di generare un groviglio inestricabile di kafkiana memoria. Ma andiamo con ordine.

La prima cosa che balza all’attenzione riguarda le dimensioni dell’ala del velivolo che deve essere proporzionata alla massa da portare in volo e alla velocità alla quale ciò deve avvenire e i dati tecnici dell’apparecchio confermano che la superficie alare è stata maggiorata rispetto a un apparecchio di dimensioni paragonabili ma con autonomia nettamente inferiore e perciò con un imbarco di carburante molto più ridotto. Ma questo rappresenta il primo problema, infatti è vero che un’ala più estesa garantisce una portanza maggiore ma per far sollevare un aeroplano più pesante e dotato di maggiore superficie alare è necessaria un superiore forza motrice, che lo Spirit of Saint Louis non possedeva.

E c’è poi il dilemma del carico del carburante. Se è necessario imbarcare un esubero di più di una tonnellata di benzina, ebbene non basta certo caricare delle taniche a bordo dell’aereo e buttarle sul pavimento a casaccio. Necessitano invece strutture idonee a sopportarne il peso di questi elementi e le accelerazioni dovute al volo. Ma è proprio a questo punto che si genera quel fenomeno reso mirabilmente dall’icona del proverbiale serpente che si morde la coda. Le strutture idonee a reggere i pesanti serbatoi ausiliari hanno infatti a loro volta un peso il quale determina un aumento generale della massa dell’intero aeroplano che richiede a sua volta un incremento della potenza dell’apparato propulsore, la quale richiede un incremento della potenza e quindi della cilindrata, che però lo rende più pesante, dato il fatto che non era possibile aumentarne la potenza specifica agendo sul numero dei giri sia perché l’elica era calettata sull’albero motore e girava alla stessa velocità dell’albero e sia perché la tecnologia meccanica e i materiali disponibili all’epoca non permettevano prestazioni superiori per un motore affidabile, in grado di funzionare per moltissime ore al regime di piena potenza. Dunque più carburante e più potenza si traducono in maggiore peso dell’apparecchio il quale richiede a sua volta una quantità ulteriore di carburante e di potenza e così via La perniciosa sommatoria è partita e i materiali disponibili negli anni Venti del secolo scorso non aiutavano sicuramente a far sì che essa potesse interrompersi tanto presto. Perciò considerando solamente questo primo problema tecnico, ci saremmo dovuti trovare di fronte ad un velivolo di dimensioni nettamente superiori allo Spirit of Saint Louis.

Ma per ciò che riguarda le dimensioni esiste un’altra questione più sottile e che sfugge spesso all’attenzione. A causa delle caratteristiche geometriche relative agli spazi tridimensionali, come quello in cui viviamo, esiste infatti una dimensione minima per un qualsiasi apparato al di sotto della quale esso non è più in grado di mantenere le prestazioni che lo caratterizzavano. Questo avviene per il fatto che al diminuire delle dimensioni di un corpo il volume interno decresce in funzione dell’inverso del cubo e molto presto lo spazio disponibile sarà insufficiente per contenere qualsiasi sorta di congegno o di propellente. E’ facile capire il perché: basta ricordare le prime nozioni di geometria solida che abbiamo imparato alle scuole Elementari: se prendiamo l’esempio di un cubo di spigolo 4 il suo volume sarà 64, mentre se dimezziamo lo spigolo a 2 il volume non si ridurrà alla meta ma a un ottavo, riducendosi in tal modo a 8. Ecco il motivo per cui una piccola barca, di quattro o cinque metri non potrà mai imbarcare abbastanza carburante per compiere una attraversata da Genova a New York, neanche stipando carburante e viveri per il viaggio a occupare tutto lo spazio disponibile, mentre una grande nave da crociera è in grado non solo di caricare il carburante necessario ma può imbarcare una quantità più che superflua di viveri e di mercanzie, lasciando al contempo più del 95% dei volumi interni rappresentati da grandi saloni e da hall dall’architettura accattivante completamente liberi, sia dalla presenza di oggetti e sia dal volume rappresentato dei corpi dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio. Se torniamo al nostro aereo notiamo perciò che esso è troppo piccolo per garantire gli spazi interni sufficienti alle richieste volumetriche e ciò porterebbe ad aumentare oltre misura la densità di massa fino a valori che non gli permetterebbero neppure di decollare.

Per completezza di informazione riportiamo anche le affermazioni tratte da Wikipedia:

Secondo Lindbergh i monomotori avevano ormai raggiunto una buona affidabilità, e consentivano una minore resistenza all’avanzamento, quindi una migliore aerodinamica, caratteristica che avrebbe consentito una superiore autonomia. Inoltre un monoplano, rispetto ad un biplano, non avendo effetti di interferenza tra le due ali, avrebbe consentito di trasportare un peso maggiore ad una velocità leggermente più elevata.

Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Spirit_of_St._Louis

Ma a quanto pare la tesi fa acqua da tutte le parti perché pochi anni dopo Italo Balbo compie la trasvolata atlantica con un mezzo decisamente sovradimensionato rispetto al piccolo velivolo di Lindbergh. Le cronache di allora affermano:

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L’idrovolante di Italo Balbo

La preparazione fu talmente accurata che il programma scivolò al 1933, ma la crociera verrà ugualmente chiamata «del decennale»: decennale della fondazione dell’aviazione. Venne perfezionato l’aereo S.55TA (TA sta per trasvolata atlantica), divenuto S.55X, con eliche metalliche, serbatoi di maggiore capacità (5070 litri), un radiatore diverso e soprattutto un nuovo motore, l’Isotta Fraschini Asso 11 R, di 750 cavalli.

Fonte: www.ilgiornale.it

Ma allora, se abbiamo capito bene, non era impossibile la realizzazione della storica impresa, bastava solo utilizzare un velivolo di maggiori dimensioni e magari dotato di più motori. E allora perché intestardirsi ad utilizzare un apparecchio del tutto inadatto e altresì dotato di un solo motore che in caso di guasto avrebbe condannato il pilota a un’orribile fine, facendolo precipitare senza via di scampo nel mezzo dell’oceano? Ebbene la spiegazione ufficiale sostiene che la presenza di un solo motore riducesse le probabilità di un guasto per il fatto che se il propulsore è uno la possibilità che si guasti riguarda solo quel singolo motore, mentre se i propulsori sono in numero superiore le probabilità si sommano perché interessano più oggetti. Una spiegazione che supera di molto il segno del demenziale!

In effetti, se esiste una possibilità di guasto, è sempre meglio diversificare il rischio e disponendo di quattro motori, anche nel caso in cui uno vada in panne, l’aereo potrà continuare a volare agevolmente con gli altri tre. Inoltre con la riserva di spazio disponibile in un velivolo di ragguardevoli dimensioni sarebbe stato possibile imbarcare di un secondo pilota in grado di garantire la sicurezza del volo e si sarebbero altresì potuti invitare a partecipare personalmente all’impresa anche alcuni giornalisti che avrebbero potuto documentare in modo preciso e professionale tutte le fasi dello storico viaggio. E come se tutto ciò non bastasse, l’aereo di Lindbergh presentava anche un’altra stravagante caratteristica: il suo grosso musone tondeggiante era talmente grande da impedire un qualsiasi tipo di finestratura anteriore, costringendo il temerario pilota a rinunciare alla visione di prua, se non tramite un rudimentale periscopio che spuntava dal tetto. La spiegazione ufficiale si arrampica ancora una volta sugli specchi e ci spiega che il carico della benzina imponeva di sacrificare tutto il volume disponibile anche se è facile capire che non era certamente quella decina di litri di carburante a non poter essere collocata in modo da permettere qualche spanna di vetro davanti al pilota.

Per quale motivo dunque rinunciare ai pur minimi accorgimenti per la sicurezza come la presenza di un secondo pilota e alla dotazione di più di un motore e soprattutto cosa doveva ospitare quel grosso musone che doveva per forza coprire tutta la sezione anteriore del velivolo?

Ecco le cronache del tempo cosa affermavano senza timore riguardo la propulsione dello Spirit of Saint Louis:

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Ed eccolo lì il dispositivo che doveva essere collaudato e che era in grado di fornire l’energia necessaria a coadiuvare il propulsore tradizionale a pistoni nel corso della storica impresa, realizzato proprio dall’uomo che il giovane Charles Lindbergh andrà a cercare per primo tra la folla al suo trionfale rientro negli Stati Uniti per ringraziarlo per il preziosissimo supporto che ha reso possibile quella straordinaria missione.

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Lester Jennings Hendershot con la sua radio a valvole a free energy prodotta dal suo generatore statico.

Si tratta di Lester Jennings Hendershot, classe 1898, eclettico ricercatore nel campo dell’elettromagnetismo e dell’elettrotecnica, che in quel decennio conduceva gli studi che hanno portato alla realizzazione di un rotore magnetico in grado di prelevare energia dal campo magnetico terrestre.

Questa prestazione è considerata impossibile, stando alle equazioni ortodosse dell’elettromagnetismo erroneamente attribuite a Maxwell e opera in realtà di una posteriore semplificazione operata da altri fisici. Secondo il lavoro originale di Maxwell invece, espresso in venti equazioni formulate nell’algebra dei quaternioni, la possibilità di utilizzare il campo magnetico del nostro pianeta come fonte di energia è una conseguenza del tutto naturale del formalismo matematico utilizzato dal grande fisico nella stesura della sua teoria.

Il lavoro completo di Maxwell, che Hendershot ben conosceva, connette a doppio filo magnetismo e gravità aprendo in tal modo alcune relazioni tra interazioni fisiche presenti in natura che hanno permesso la realizzazione di quel dispositivo. Un rotore di questo tipo, realizzato secondo le possibilità tecniche di un’epoca nella quale non esistevano i computer, aveva però una caratteristica dalla quale non era possibile prescindere. La sua realizzazione era infatti subordinata ad una struttura mono-frequenziale, ovvero poteva ruotare ad una ed una sola velocità, in modo molto simile a una campana, che produce una sola nota stabilita dalla sua stessa forma e dimensione. Allo stesso modo quel rotore doveva possedere un diametro specifico, relativo alla velocità di rotazione richiesta e siccome nel nostro caso doveva essere accoppiato ad un motore a combustione interna con un regime di rotazione di 1750 giri, le sue dimensioni dovevano essere proprio quelle del grande musone dello Spirit of Saint Louis.

In quegli anni quel congegno ideato da Hendershot interessa molto attivamente anche gli ambienti governativi e nel giro di breve tempo sono promossi alcuni esperimenti corroborati dalla presenza delle autorità militari.

I primi test del rotore magnetico sono realizzati a Selfridge Field, presso Detroit a metà degli anni Venti sotto la supervisione del comandante del campo, il Maggiore Thomas G. Lanphier che rimane letteralmente sbalordito dai risultati delle prove tecniche e dichiara di avere personalmente indagato e vigilato affinché non venissero messi in atto trucchi per falsificare i dati degli esperimenti, accertando in tal modo che si trattava di prestazioni assolutamente nette e genuine.

Dopo la storica trasvolata Charles Lindbergh è uno degli uomini più famosi del pianeta e ogni evento presente o passato che fosse in qualche modo a lui connesso monopolizzava le prime pagine di tutti i giornali. Così compaiono sulle maggiori testate giornalistiche di tutti i paesi del mondo alcune eloquenti fotografie che ritraggono il celebre aviatore a fianco di Lester Hendershot e del Maggiore Lanphier proprio durante i test che hanno reso possibile la realizzazione del rotore installato a bordo dell’aereo di Lindbergh.

Per lunghi decenni le versioni ufficiali che raccontano questa e altre storiche imprese umane sono state deformate ad hoc per farle calzare a calci all’interno della rassicurante rappresentazione che estrapola dal noto comune e si è in tal modo cercato di indebolire o arrestare il progresso in alcune particolari aree sensibili della ricerca. Non mi riferisco solamente al fatto evidente e assodato che chi detiene il monopolio dell’energia non esulti dalla gioia per lo sviluppo di tecnologie in grado di fornire energia libera e gratuita per tutti. Ma spingo piuttosto lo sguardo in quell’area di confine dove si forma la consapevolezza di ciò che chiamiamo realtà. Se in quel luogo delle nostre menti trovano posto unicamente concetti dal sapore logoro e striminzito anche i nostri pensieri e le nostre azioni ne soffriranno di conseguenza. In tal modo bruceremo tutte le nostre energie fisiche e mentali in quelle inutili contraddizioni interiori che ci scaricano come fossimo grottesche batterie dalla forma antropomorfa e ci rendono in tal modo più remissivi e malleabili, predisposti ad accettare la liquefazione di tutti i valori e la loro sostituzione con qualsiasi altra presunta verità.

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