[b]“’AFFANCULO GLI EBREI”? TUTTA ACQUA PASSATA![/b][img align=right]library/usisr150.jpg[/img] Durante la campagna elettorale di Bush padre, nel 1988, avvenne un fatto che fece scalpore in tutti gll Stati Uniti, ma soprattutto all’interno delle varie comunità ebraiche. In attesa di iniziare uno dei mille discorsi dal palco, Bush senior venne avvicinato da Alexander Haig (suo futuro ministro degli esteri), che gli disse qualcosa sottovoce. I due iniziarono una breve discussione, ma proprio in quel momento il tecnico audio decideva di fare la famosa “prova microfono”, e finiva così per rilanciare al mondo il seguente scambio privato: Haig – .... ma in questo modo ci alieneremmo completamente il voto ebraico. Bush – (Lett.) Affanculo gli ebrei! Tanto quelli per noi non votano comunque. Oggi evidentemente le cose devono essere un pò cambiate. Ecco l’analisi [b]di Fabio de Nardis:[/b] Sono molti negli Usa a pensare che il recente cambiamento di rotta di Bush sulla questione israeliana sia interpretabile come una mossa per conquistare il consenso della comunità ebraica americana, in occasione delle prossime presidenziali. Sebbene gli ebrei americani rappresentino solo il 2% della popolazione, ed il 4% dell’elettorato, essi sono una componente elettoralmente attiva. Le statistiche mostrano infatti ... ...che almeno l’80% degli ebrei in America vanno regolarmente a votare, e in un paese dove l’astensionismo è cronico, questo può fare la differenza quando lo scarto tra i due candidati, come lo è oggi, è minimo. La comunità ebraica americana (come quasi ovunque nel mondo) è composta per lo più da persone con cultura e reddito medio-alti e ha tradizionalmente guardato “a sinistra”. Un sondaggio commissionato dall’American Jewish Committee mostra infatti che il 40% degli ebrei americani si autodefinisce “liberal” (che in America confina pericolosamemnte con “comunista”), il 33% si colloca su posizioni moderate, mentre solo il 27% dichiara di essere più vicino a quelle conservatrici. Questi dati sono confermati dalle proiezioni elettorali dell’ultimo quarto di secolo. Nelle elezioni del 2000 quasi l’80% degli ebrei ha votato per il candidato democratico, Al Gore, così come nel 1996 e nel 1992, quando la stessa percentuale votò per Clinton. Anche nelle precedenti tornate elettorali la comunità ebraica si orientò in maggioranza per i candidati di centrosinistra. Così avvenne nel 1988, quando il 64% votò per Michael Dukakis a scapito di Bush padre (e qui uno dei motivi lo abbiamo forse individuato); e nel 1984, quando una percentuale analoga di ebrei decise di votare per Walter Mondale, a scapito di Reagan; o nel 1980, quando il 45%, la maggioranza relativa, diede fiducia a Jimmy Carter (che poi perse comunque le elezioni). Ma questa volta le cose potrebbero andare diversamente. Il terrorismo in casa, da un lato, e la radicalizzazione dello scontro in Medio-Oriente, dall’altro, potrebbero determinare una inversione di rotta negli orientamenti elettorali degli ebrei. In questo senso, la mossa di Bush è meditata. Riconoscendo la legittimità delle postazioni israeliane a West Bank, il Presidente americano cerca di sfruttare una situazione internazionale per puri fini domestici. Come afferma William Daroff, parlamentare e portavoce degli ebrei repubblicani, l’operazione di Bush rappresenta un importante spartiacque che, consolidando il rapporto di storica fratellanza tra Stati Uniti e Israele, potrebbe avere degli interessanti risvolti in termini elettorali. Non tanto in Stati importanti come la California, New York, il Massachussetts o il Texas, dove la maggioranza per l’uno o l’altro candidato è già abbastanza definita, quanto piuttosto nei cosiddetti “swing states”, ovvero quegli stati dove la popolazione è divisa più o meno a metà (Ohio, Pennsylvania, ma soprattutto Florida) e dove un voto in più potrebbe di nuovo fare la differenza. C’è da dire però che il fondamentalismo cristiano di Bush non gioca certo a suo favore. Già in passato l’attuale presidente ha avuto dei problemi con la comunità ebraica, per via di alcune sue affermazioni che vennero interpretate come esclusiviste e xenofobe (come quando affermò che solo le persone che accettano Gesù Cristo come personale salvatore avranno diritto al regno dei cieli. Al che il vice di Al Gore, il Senatore Joe Lieberman, ebreo ortodosso, replicò affermando che chi andrà in Paradiso lo decide Dio e non George Bush). Inoltre, un altro sondaggio mostra che almeno il 41% degli ebrei negli Stati Uniti è convinto che gli esponenti della destra cristiana, di cui Bush è un autorevole membro, siano antisemiti, o comunque lo siano stati in passato. La situazione, sebbene non semplice da inquadrare, aiuta a comprendere meglio la fisionomia di un paese che, a dispetto della teoria liberale, ha fatto del comunitarismo il nodo centrale del proprio melting pot. Gli Stati Uniti sono aperti al multiculturalismo ma rifiutano l’interculturalismo, configurando una società fatta di tante comunità etniche e religiose che coesistono ma non convivono, si tollerano ma non si incontrano, si sentono ma non si ascoltano. Fabio de Nardis