di Maurizia Leoncini Vecchi

“Il vero mistero del mondo è nel visibile, non nell’invisibile”, scrive Oscar Wilde nel suo ‘Il ritratto di Dorian Gray’. Studiare l’invisibile è sempre stato il compito della ricerca scientifica. In un ampio articolo apparso sulla rivista ‘The Lancet’ (January 19, 2022), Christopher Murray, medico ed economista sanitario dell’Università di Washington Seattle, in équipe con alcuni colleghi dell’Antimicrobial Resistance Collaboration, stimava in 4,95 milioni le morti associate a resistenza antimicrobica nel 2019, con più di 1,2 milioni direttamente attribuibili a sei principali patogeni (Escherichia coli, Staphylococcus aureus, Klebsiella pneumoniae, Streptococcus pneumoniae, Acinetobacterbaumannii e Pseudomonas aeruginosa).

Dal 2016 (cfr. EFSA 20.6.2021) si è progressivamente limitato l’uso di antibiotici negli animali da produzione alimentare che, ad oggi, si è quasi dimezzato. L’attenzione nella somministrazione di tali farmaci anche sull’uomo (che nutrendosi di carni di animali trattati, inconsapevolmente assumeva antibiotici) è notevolmente aumentata, riducendo le prescrizioni mediche allo stretto necessario. Pur tuttavia, dai dati, dobbiamo convenire che l’antibiotico-resistenza è un fenomeno sempre più dilagante e che la strada della ricerca per formulare sempre più potenti nuovi antibatterici è in salita.

Per una breve storia di questi straordinari farmaci (gli antibiotici) cui tanto dobbiamo, conviene ricordare che, sebbene dimenticato, fu proprio un medico italiano della Marina Militare, Vincenzo Tiberio (Fleming ebbe il Nobel, lui una lapide murata nel palazzetto signorile di Sepino presso Campobasso), a scoprire, nel 1895, il potere battericida di alcune muffe, anticipando di trent’anni (1928) la scoperta della penicillina di Alexander Fleming, che diede il via alla nascita degli antibiotici.

Fino ad allora dissenteria e tifo erano le classiche malattie ‘da campo’ ed è per loro causa che, solo nella prima guerra mondiale, si contarono almeno 3 milioni di morti. Nel 1941 si ebbe la prima sperimentazione sull’uomo e da quel momento è stato possibile includere gli antibiotici tra i migliori amici del genere umano.

Tutto bene, fino all’esplodere dell’antibiotico resistenza con cui ora il nostro Occidente deve fare i conti. Ci si riferisce qui all’Occidente come a quell’insieme di Paesi che, dopo la seconda guerra mondiale sono stati divisi dall’URSS dalla guerra fredda. Infatti, conviene dare uno sguardo a quanto nel frattempo è accaduto nelle aree a noi limitrofe al di là della cortina di ferro.

Nell’attuale Russia il fenomeno dell’antibiotico resistenza è quasi irrilevante. In Russia e Paesi ad essa legati ci si cura, infatti, con i batteriofagi. Ci si è accorti di questo in particolare in Francia giacché tra Francia e URSS prima e tra Francia e Russia poi, i contatti, sul fronte medico-farmacologico, non si sono mai completamente interrotti ed un sottile legame è stato mantenuto, malgrado le normative europee pongano barriere quasi insormontabili agli interscambi.

I batteriofagi non sono una nuova scoperta. L’utilizzazione di questi virus divoratori di batteri risale ad un centinaio di anni fa. Scoperti a Londra nel 1915 da Frederick W. Tword, microbiologo, furono oggetto di un suo lavoro (‘Infectious desease of the micrococcus’) su ‘The Lancet’ nel 1915. Nel 1917 un suo collega franco-canadese, Félix d’Hérelle, che lavora al Pasteur di Parigi, li isola ed inizia a trattare importanti infezioni, dando conto dei primi successi nel 1920-21 (Le bacteriophage, son rôle dans l’immunité, 1921).

E’ nata la ‘phagothérapie’. Dal Pasteur d’Hérelle passa a Leiden in Olanda, è chiamato poi ad Alessandria d’Egitto, insegna la batteriologia negli US, a Yale, infine si trasferisce in Russia dove lancia molteplici ricerche in diverse città, prima di rientrare a Parigi dove crea un laboratorio. Intanto, insieme al collega georgiano Guorgui Eliava, venuto a Parigi per studiare con lui la fagoterapia, si è spostato già nel 1921 in Georgia dove, nel 1923, nasce quello che è l’attuale Istituto Eliava.

A partire dagli anni Trenta i batteriofagi sono progressivamente messi da parte, in Europa, rimpiazzati dagli antibiotici che iniziano ad essere prodotti su larga scala dalle case farmaceutiche, che ne traggono ampio profitto. Questo non avviene nell’URSS e nell’attuale Federazione Russa (o Russia post-sovietica) dove la ricerca è sempre continuata e continua tuttora su doppio binario.

Una scatola di batteriofagi costa, per uno straniero, circa 10 euro in una farmacia moscovita e si considera che lungo gli 11 fusi orari che costituiscono la Russia si consumino un miliardo di scatole l’anno. Sotto l’URSS centri di ricerca e cura sono stati aperti a Mosca, San Pietroburgo, in Polonia e in Georgia, a Tbilissi. In Francia i batteriofagi figuravano ancora fino al 1970 sul VIDAL, il dizionario delle specialità farmaceutiche.

Alla fine degli anni Novanta il medico francese Alain Dublanchet, microbiologo che ha operato all’Ospedale di Villeneuve-Saint-Georges (Val-de-Marne), insieme ad altri medici, riavvia i contatti con colleghi dell’Est, riprende la ricerca in Russia e Georgia e ricomincia a curare con la fagoterapia, portando illegalmente medicamenti in Francia. Le leggi europee, in effetti, interdicono l’uso di questi medicamenti prodotti in Russia, malgrado la sperimentazione centenaria che non ha mai subito arresti e le evidenze e pubblicazioni scientifiche.

I fagi, infatti, non rientrano nel quadro della farmacopea dell’UE. In Europa, di conseguenza, si continua a morire o a subire amputazioni. In Francia si sono formate associazioni quali ‘Phages-Sans-Frontières’ (Fagi senza frontiere), ‘Se soigner en Georgie’ (curarsi in Georgia) e ‘PHAGESPOIR’ (Fagosperanza) che si occupano del trasferimento all’Est di pazienti che economicamente possono affrontare la spesa (circa 6000 euro), di sostenere economicamente i meno abbienti o di procurare fagi a coloro che non possono affrontare il viaggio.

I fagi importati, tuttavia, devono essere somministrati sotto controllo medico perché possono provocare reazioni (anche se di guarigione) pesanti. Sotto questo profilo il Paese d’Oltralpe ha trovato un’escamotage che permette al medico, liberato da ogni e qualsiasi responsabilità ed a titolo ‘compassionevole’ di seguire il paziente, facendo ricadere il suo operato sotto il profilo della ricerca sperimentale che deve, comunque, essere relazionata e trasmessa all’Ente di Stato. Al momento, infatti, se non si vuole ricorrere ai fagi importati, le procedure sono complesse.

Bisogna isolare il batterio del paziente e realizzare un fagogramma per vedere se il fago efficace esiste. Una volta identificato il fago, il laboratorio lo invia all’ANSM (il corrispondente francese dell’AIFA) che verifica la preparazione, quale preparazione magistrale, e approva il protocollo di cura. Solo dopo vi è la somministrazione all’ammalato. Per di più vi è solo un fabbricante francese, la Pherecydes Pharma, che ha, inoltre, disponibili solo sette fagi attivi contro due patogeni (Pseudomonas aeruginos e Staphylococcus aureus), dal momento che, alla fine degli anni Settanta, la Francia ha distrutto le sue ricche banche di fagi. Risultato: 16 pazienti trattati in tre anni in Francia e centinaia di pazienti europei che migrano, per curarsi e salvarsi da amputazioni, all’Est.

Tutto questo mentre in Russia e Georgia esiste la più grande collezione di fagi del mondo e da cui, senza la paralizzante burocrazia europea, si sarebbe potuto attingere in clima di ricerca e collaborazione che, dalla parte russa, non sembrano essere mai venute meno. In Francia, dove più che altrove lo Stato è presente nella difesa della Salute nazionale, si comprende l’urgenza di dare un colpo d’acceleratore alla fagoterapia, ma oltre alle difficoltà di dovere ricostruire il patrimonio di fagi perduto ed al macigno rappresentato dalla burocrazia non solo francese, ma soprattutto europea, vi è lo scoglio degli interessi delle case farmaceutiche.

Il fatto di avere eliminato in tutta Europa (Belgio e Svizzera hanno un minimo più degli altri, ma poca cosa) la ‘banca’ di fagi sperimentati e cumulati in anni di ricerca, obbliga ad impegnarsi in nuove ricerche. Le case farmaceutiche sono pronte ad investire, ma solo in vista di un imponente ritorno economico, cosa che, nel caso dei fagi, è impossibile. I fagi, infatti, sono virus esistenti in natura e, perciò, non brevettabili.

A fronte di ricerche sempre più interessanti, di pubblicazioni sugli ottimi risultati in casi di infezioni osteo-articolari e da conseguenze diabetiche, e delle prime tesi di dottorato (Flora Guillaume ‘La phagothérapie : une thérapeutique d’espoir face à l’antibiorésistance?, Univ. Di Limoges, 24.3.2020), anche in Italia c’è stato un risveglio. I nostri ricercatori nulla hanno da invidiare agli altri, ma lo Stato che continuamente taglia i fondi alle Università, mettendole in mano ai Privati, è il maggiore ostacolo.

Dopo avere ‘tagliato le gambe’ al dott. Maurizio Federico dell’ISS (che stava mettendo a punto il vaccino italiano contro il Covid-19 utile anche contro le varianti) ed esserci riempiti di vaccini Pfizer oramai scaduti anche nelle etichette e che, forse per non essere costretti a rendicontare l’immane spreco, il governo Draghi inocula a viva forza nei malcapitati non vaccinati ancora sospesi da professioni e stipendi, i fagi italiani, studiati nel Dipartimento di biologia dell’Università di Pisa, sono sfociati in ‘Fagoterapia Lab’ (Biotech&Pharma) in attesa di congrui investimenti di privati.

Lo Stato, infatti, è, come di prassi, carente. In mano privata, immancabilmente, si pensa soprattutto al guadagno. Le fertili menti dei ricercatori, sono così, obbligatoriamente giunte a studiare il modo di aggirare l’ostacolo del brevetto impossibile. Ciò sarà possibile tramite modificazione genetica dei fagi che la natura ci offre. Tale problema in Russia non esiste. A differenza nostra, non c’è stato bisogno di modificare geneticamente i fagi per permettere ad avide mani di privatizzare quello che è un patrimonio della natura e di lucrare sulla salute dei cittadini.

Il quadro fino a qui descritto è un altro tassello di quanto la Russia sia stata parte essenziale dell’Europa nella cultura, nello studio, nella ricerca e di quanto ci si sarebbe potuti vicendevolmente ancora offrire. Mentre noi modificheremo geneticamente i fagi, in Russia vi sono 100 anni di ricerca pura e la più vasta banca di fagi che il mondo intero abbia mai visto. Ora, la guerra per procura d’Ucraina, voluta dagli US e maturata da decenni al fine di indebolire la Russia, ha separato la Terra russa dai Paesi europei cui è stata sempre fortemente legata. Se il progetto guidato dagli US raggiungesse lo scopo prefisso, sarebbe una perdita enorme che vedrebbe sfumare oltre Mille anni di Storia comune.

Mentre il pensiero unico continua a sfornare informazioni talmente assurde, a volte, da sembrare impossibile che esista chi è disposto a credervi, questa guerra orrenda che sta radendo al suolo il Donbass (è abitato da russofoni, di conseguenza non vi è nessuna remora, da parte di Kiev, nel distruggerlo completamente) non si arresta, né Zelenskyy allenta di un attimo il suo protagonismo. Prima protestava per la carestia in Africa perché i carghi di grano in Odessa (pieno territorio ucraino) non potevano partire e il grano marciva; ora che un cargo russo è partito dal porto di Berdyansk (Mare di Azov interamente sminato dai russi) verso l’Africa, carico di grano, costeggiando le coste che danno sul Mar Nero, Zelenskyy chiede alla Turchia di bloccare il passaggio del Bosforo perché si tratta di grano rubato all’Ucraina. Per chi non avesse chiara la mappa: Berdyansk è nel Donbass ed il grano è quello coltivato nelle aree russofone, da braccia russofone, ora (finalmente, visto dalla loro parte) in mano russa. Ci si chiede quanto interessasse e interessi a Kiev e, soprattutto, agli US, UK e UE, la carestia in Africa. La risposta è ovvia.