di Giorgio Cattaneo *

Era nell'aria: il Governo del Tradimento si sarebbe apprestato a rimangiarsi anche l'ultima delle sue promesse. Ovvero: non gettare via miliardi in valle di Susa per il Tav Torino-Lione, senza prima averne verificato l'utilità. La verifica – la prima, nella storia – era arrivata nei mesi scorsi dopo decenni di silenzio da parte dei governi romani, per merito del ministro Danilo Toninelli. Verdetto negativo, firmato dal più autorevole trasportista italiano, il professor Marco Ponti, già docente del Politecnico di Milano e consulente della Banca Mondiale: un'opera faraonica e completamente inutile, perfetto doppione della linea Italia-Francia che già attraversa la valle di Susa, collegando Torino e Lione via Traforo del Fréjus, da poco riammodernato al prezzo di quasi mezzo miliardo di euro per consentire il passaggio di treni con a bordo i Tir e i grandi container “navali”. Lo sapevano anche i sassi, peraltro: il traffico Italia-Francia è praticamente estinto. Lo chiarisce la Svizzera, delegata dall'Ue a monitorare i trasporti transalpini: l'attuale linea valsusina Torino-Modane-Lione, ormai semideserta e destinata a restare un binario morto anche nei prossimi decenni, potrebbe aumentare del 900% il suo volume di traffico, se solo esistesse almeno il miraggio di merci da trasportare, un giorno.

Cos'è cambiato, nel 2019? Niente. Semplicemente, l'Ue ci farebbe uno sconto, sul costo miliardario dell'ipotetico e sempre inutile maxi-cantiere: questo l'appiglio a cui si aggrappa Conte, nell'imboccare il tunnel (politico) destinato a trasformarsi nella “tomba” dei 5 Stelle, che della battaglia NoTav avevano fatto la loro bandiera. Era il 2005 quando Beppe Grillo gridò all'attentato alla democrazia, insieme a Dario Fo, nel sostenere i valsusini in rivolta. Cinque anni dopo, tornò in valle e arrivò a violare la prima “zona rossa” nel frattempo istituita. Nel 2013 la battaglia NoTav – emotiva, etica, simbolica e fondativa dell'immaginario grillino – contribuì all'exploit elettorale dei 5 Stelle, che poi dilagarono nel 2018 (con percentuali bulgare in val Susa). Ora, al governo da un anno, Di Maio e soci si apprestano a tradire i valsusini, lasciando di sale anche gli altri elettori italiani – milioni – che avevano creduto che i grillini volessero davvero ristabilire il primato della politica sui grandi interessi, dal Tap pugliese ai vaccini, fino appunto alla mega-opera ferroviaria valsusina.

Infrastruttura fantasma, che nel frattempo è sempre ferma al palo: in otto anni è stato realizzato (a Chiomonte) solo un piccolo tunnel geognostico, da cui non potrebbe mai passare nessun treno. Del vero traforo, oltre 50 chilometri tra Susa e St. Jean de Maurienne, non è stato finora scavato neppure un metro. Eppure, anche Conte ormai dice che “tanto vale completarla, l'opera”, come se fossimo agli sgoccioli. Ma è solo l'ennesima bufala venduta agli italiani che ne pagheranno il prezzo miliardario, nel paese dove le opere utili crollano, come a Genova. Bufale un tanto al chilo, inflitte in particolare a un territorio che da oltre vent'anni è la più grande palestra a cielo aperto per tutti i bugiardi d'Italia. Pochi infatti ricordano che la valle di Susa, a partire dagli anni '90, è stata al centro di una storia oscura, fatta anche di mafia e terrorismo “false flag”, specchio tristemente fedele di quella fatale stagione, dominata dalle sanguinose premesse della Seconda Repubblica (Mani Pulite e il Britannia, Falcone e Borsellino, le bombe di Milano e Firenze).

In una manciata di anni si succedettero eventi impensabili, per una vallata alpina (quella che un decennio dopo avrebbe ospitato le Olimpiadi Invernali Torino 2006). Tanto per cominciare, fu disciolto per mafia il primo Consiglio comunale italiano a nord del Po: Bardonecchia, paradiso sciistico. L'ombra della 'ndrangheta (e dei servizi “deviati”, forse eredità della “trattativa” costata la vita a Borsellino) riemerse a Susa, dove la Procura di Torino scoprì un traffico clandestino di armi destinato a una cosca calabrese. Gola profonda, un killer della 'ndrangheta, Giuseppe Loprete: che smise di collaborare quando gli fu ucciso il fratello, Nicola, proprio in valle di Susa. Freddato nel '92 da Franco Fuschi, già uomo del Sismi, arrestato e reo confesso. Il traffico di armi da Susa alla Calabria (in carcere i titolari dell'armeria) era stato coperto dalla polizia giudiziaria, che aveva controfirmato i registri: le armi vendute, centinaia, erano state intestate a nomi di fantasia e a persone morte da anni.

Non fecero in tempo a riaversi dallo shock, i valsusini, che la loro terra cominciò a saltare per aria: a metà degli anni '90 intorno a Susa esplosero non meno di 12 strane bombe, tutte notturne e senza vittime, destinate a distruggere ripetitori televisivi e telefonici, trivelle, cabine elettriche, centraline di sicurezza dell'autostrada. Comparve una fantomatica sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro il futuro Tav. Furono arrestati tre giovani anarchici, con accuse pesantissime: banda armata e associazione sovversiva. In altre parole, terrorismo. Gli inquirenti vantarono “prove granitiche”. Prima ancora del processo, uno degli arrestati – Edoardo Massari, detto “Baleno” – fu trovato impiccato a un asciugamano nel carcere di Torino. Lo seguì a ruota la giovanissima fidanzata, l'argentina Maria Soledad Rosas: anche lei appesa a un asciugamano, nella comunità del Gruppo Abele dove era stata trasferita.

Quando finalmente si arrivò alle udienze, le “prove granitiche” evaporarono. Nessuna banda armata: non erano stati quei ragazzi, “Sole e Baleno” (nel frattempo morti) a piazzare quelle bombe. Chi, allora? Non si seppe mai. In compenso, non era ancora terminata la strage dei “morti per asciugamano”: finirono in quel modo, a stretto giro, altre tre persone. Per la precisione: il responsabile della comunità che aveva ospitato Soledad Rosas, il consigliere regionale dei Verdi che si era occupato del caso (Pasquale Cavaliere, trovato morto a Buenos Aires, la città di Soledad) e il colonnello Mario Ferraro, indicato da Fuschi (il killer valsusino del Sismi) come il regista incaricato dell'operazione-armeria, la Calabria Connection di Susa. Dettaglio: Ferraro, che era in ottimo stato fisico e psicologico, fu ritrovato seduto a terra nella sua casa di Roma, impiccato al termosifone contro cui appoggiava la schiena. Altro indizio, rivelato dall'ex collega “gladiatore” Antonino Arconte: era stato Ferraro, nel 1978, a consegnare a Beirut il messaggio che impegnava il Sismi a contattare l'Olp, sperando che i palestinesi potessero convincere le BR a liberare Moro. Solo che al sequestro di Moro mancavano ancora due settimane.

Che c'azzecca, tutto questo, con il Tav Torino-Lione? C'entra, eccome: spiega, ad esempio, la terribile esasperazione che nel 2005 portò i valsusini – tutti, anche vecchi e bambini, guidati dai sindaci in fascia tricolore – a scatenare una specie di insurrezione, con barricate, dopo che i “robocop” di Pisanu avevano spedito all'ospedale, a manganellate, gli inermi presidianti (e questo, appena quattro anni dopo la folle mattanza del G8 di Genova). Seguì un'ondata di indignazione, destinata a fare della valle di Susa un caso nazionale. Metteva paura, la rivolta nonviolenta dei sindaci per bene: era un'invocazione trasversale di legalità e di trasparenza, in nome del popolo italiano, e senza bandiere di partito. Berlusconi ritenne più prudente prendere tempo, sospendendo il progetto. A congelarlo provvidero poi alcuni ministri del successivo governo Prodi, come il comunista Paolo Ferrero e i Verdi Edo Ronchi e Alfonso Pecoraro Scanio. Ma nel 2011, puntuale, l'inferno ricominciò. E nel modo peggiore: con la violenza. A fine giugno i NoTav furono sgomberati da Chiomonte in modo quasi indolore, grazie al ministro Maroni e al capo della polizia Manganelli. Ma una settimana dopo, il 3 luglio, esplose una specie di guerriglia (bilancio ufficiale, 200 feriti per parte).

Da allora, la valle di Susa è rimasta prigioniera del comodissimo “frame” narrativo dell'ordine pubblico, perfetto per depistare gli italiani dal nocciolo della questione, rimasto invariato: tanto caos (e decine di arresti) per un'opera pubblica che lo Stato si è ostinato a imporre in modo cieco, senza mai spiegarne le ragioni, a una popolazione che nel frattempo s'era mobilitata in modo esemplare, civico, interpellando i migliori tecnici d'Europa. Tutti concordi: opera disperatamente inutile, oltre che devastante per il territorio e per il disastrato bilancio nazionale. Una causa che i 5 Stelle avevano fatto propria, intuendo la natura squisitamente democratica delle istanze valsusine: una battaglia solo in apparenza locale, in realtà destinata a smascherare il potere oligarchico che – dall'alto della finanza-canaglia – impone ai politici di turno le scelte peggiori, decise altrove. Al dunque, il 2019 provvede a reclutare anche i grillini tra gli yesmen del potere ordoliberista europeo e dei suoi terminali italiani. Ma il cedimento sulla grande menzogna del Tav – che probabilmente segnerà la morte clinica del Movimento 5 Stelle – non è solo una sciagura per la valle di Susa: significa arrendersi, seppellire ogni speranza di cambiamento, certificare l'impossibilità di ottenere giustizia. Significa mortificare tutti gli italiani che resistono all'abuso universale.

* Giorno Cattaneo è il responsabile del sito Libreidee