Massimo Cacciaridi Giorgio Cattaneo

Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non a spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precedenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.

Fa impressione sentirlo dire in televisione dal filosofo Massimo Cacciari, solitamente prudente, ospite di Bianca Berlinguer il 7 gennaio 2020 insieme all’altrettanto compassato Paolo Mieli, parimenti preoccupato dall’inaudito omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, assassinato senza preavviso in un paese neutrale e teoricamente sovrano, l’Iraq devastato dalle guerre americane. A spaventare Cacciari è innanzitutto la morte clinica della politica: senza nemmeno citare l’increscioso Salvini che tifa per i missili omicidi, auto-espellendosi dal club delle personalità pubbliche abilitate a occuparsi di noi, ciò che sconcerta è il vuoto pneumatico, culturale prima ancora che politico, che contraddistingue le cancellerie europee di fronte al pericolosissimo valzer di sangue innescato dal proditorio assassinio di Soleimani, eroe nazionale dell’Iran, le cui esequie in mondovisione hanno esibito nelle piazze il dolore di milioni di persone. Si ha un bel dire che il regime di Teheran non è certo un esempio di libertà e democrazia: la discussione si potrebbe svolgere alla pari quando l’Iran bombardasse l’Europa o l’America, ammazzando leader occidentali.

Certo, se il mondo sembra sull’orlo dell’abisso, non bisogna dimenticare che – dietro le quinte – agiscono potentissime consorterie riservate, spesso tacitamente in accordo tra loro, pronte anche a sacrificare innocenti pur di incolparsi a vicenda e rafforzare nel modo più sleale il ferreo dominio sui rispettivi popoli, drogati di propaganda. Di fronte al suo omicidio così infame, imposto al mondo in modo pericoloso e oscenamente sfrontato, i media occidentali ripetono che Soleimani era una specie di terrorista, evitando di ricordare che proprio il comandante dei Pasdaran era il nemico numero unico del terrorismo targato Isis, da lui personalmente sgominato prima in Iraq e poi in Siria. Dove pensa di andare, un Occidente che si priva della minima dose vitale di verità? In nome di quale presunta superiorità democratica ritiene di prevalere sulla brutale teocrazia degli ayatollah, sulla “democratura” russa e sull’oligarchia cinese?

Si abbia almeno la decenza di riconoscere che il generale Soleimani era innanzitutto un uomo del suo popolo, protesta – sempre alla televisione italiana, ospite di Barbara Palombelli – un intellettuale come Pietrangelo Buttafuoco, il solo a rammentare al gentile pubblico che l’Isis, il mostro che Soleimani ha sconfitto in Iraq e in Siria, era armato e protetto proprio da noi, Occidente democratico. Per la precisione, ha ricordato il saggista Gianfranco Carpeoro, a mettere in piedi l’inferno chiamato Isis è stata una Ur-Lodge supermassonica, la “Hathor Pentalpha”, creata nel 1980 dal clan Bush, reclutando prima Osama Bin Laden e poi il “califfo” Abu Bakr Al-Baghadi. Proprio la recente uccisione del macellaio Al-Baghdadi, uomo-chiave del Deep State statunitense, secondo Carpeoro avrebbe indotto la “Hathor” a premere su Trump, ricattandolo: se uccidi Soleimani, la passerai liscia al Senato per l’impeachment e avrai dalla tua parte, nella corsa per le presidenziali di novembre, anche l’ala repubblicana più reazionaria e naturalmente il potentissimo network sionista che i complottisti chiamano impropriamente “lobby ebraica”.

Analisi, suggestioni e indizi che non raggiungono neppure lo 0,1% del pubblico, a cui viene raccontato che il generale Soleimani era “un feroce assassino”, senza mai specificare come, quando e dove si sarebbe esercitato nella sua diabolica specialità, così riprovevole e lontana mille miglia dalla soave, squisita e leggendaria gentilezza dei democraticissimi generali statunitensi e israeliani. Era attivo in Libano, Soleimani? Certo, ma lo erano anche i colleghi israelo-occidentali, che notoriamente in Libano ci vanno abitualmente come turisti. Era stato impegnato in Iraq, il generale iraniano, ed è noto a tutti che l’Iraq è da sempre nei cuori delle umanitarie democrazie occidentali, madrine dei diritti umani. Il bieco Soleimani era di casa pure in Siria, altro paese amatissimo dai democratici di Washington, Ankara, Riad e Tel Aviv. Per inciso: Siria, Libano e Iraq erano i paesi da cui gli impresari occidentali dell’Isis contavano di esportare i tagliagole in Iran, per abbattere finalmente l’odiato regime (sovrano) degli ayatollah. Paolo Barnard ha titolato un suo bestseller con la più scomoda delle domande: perché ci odiano? Tra le sue fonti: il numero due di Al-Qaeda in Egitto.

E’ decisivo scoprire che il cuore nero e inconfessabile del jihadismo è l’invenzione perversa di un’élite occidentale criminale. Ma restando sulla superficie, questo non cambia il quadro, il bilancio finale: le nostre forze armate, impegnate in paesi islamici, hanno provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di esuli. Perché ci odiano, dunque? Supporre che al nostro posto chiunque altro – Russia, Cina – si sarebbe comportato nello stesso modo, non è di grande consolazione. Alcuni incrollabili atlantisti, che vedono comunque negli Stati Uniti l’unica possibile fonte di riscatto democratico per il pianeta, sperano che il lume della ragione prenda possesso del governo imperiale della superpotenza prima che sia troppo tardi. Si illudono? Sono domande senza risposta, su cui pesa anche il vistoso smarrimento di Cacciari di fronte al vergognoso silenzio dell’Europa: com’è possibile, accusa, non prendere le distanze da un atto di terrorismo di Stato come quello compiuto dagli Usa ai danni dell’Iran?

Lo stesso Cacciari, sempre in televisione, non si nasconde le possibili conseguenze: se gli Usa dovessero reagire alle ovvie rappresaglie iraniane bombardando Teheran, la potenza nucleare russa sarebbe costretta a intervenire. La chiamano: Terza Guerra Mondiale. Nessuno la vorrebbe, ma sembra avvicinarsi in modo terrificante, con sviluppi imprevedibili. Simone Santini, su “Megachip”, accosta la morte di Soleimani a quella dell’afghano Massud. Stessa dinamica e stessi mandanti, identico obiettivo: assassinare un leader amatissimo e autorevole, per far esplodere il caos e indebolire il paese finito nel mirino della potenza imperiale. La pakistana Benazir Bhutto accusò Bush e la Cia dell’omicidio Massud, candidandosi a ripulire il Pakistan, per poi rimarginare anche le ferite dell’Afghanistan: fu assassinata a sua volta, alla vigilia delle elezioni. Un conto però sono le autobombe, dice oggi Massimo Cacciari, e un altro è l’omicidio manu militari commesso impunemente, alla luce del sole. Non era mai accaduto prima, nella storia. E nessuno ha avuto il coraggio di protestare. Se stiamo zitti di fronte a questo, aggiunge Cacciari, cosa potrà accaderci, domani? Com’è possibile non capire che il sangue versato da Qasem Soleimani interroga personalmente ognuno di noi, prima ancora che i nostri impresentabili politici?

Fonte Libreidee